Faringe, laringe, sottoglottide, trachea. Per affrontare davvero l’oceano, forse, devi farti attraversare dall’oceano stesso. Salato, amaro, salato, una punta di dolce, salatissimo. Per conoscere l’oceano, forse, devi sapere che sapore ha. Un respiro sì, uno no, uno mozzato, uno di nuovo no e poi un altro profondissimo. Per comprendere l’oceano, forse, devi scordarti per un attimo che esista tutto il resto. Persino il tuo corpo. Ho una muta da surfista “navigata”, una crocchia di ricci scompigliati che mi copre buona parte della visuale e una tavola che mi sta a fianco da un lato e mi lascia libera dall’altro, come le persone che ti amano davvero. E io mi lascio amare, quasi accudire, da lei, mentre provo camminare e nuotare insieme sulla costa della migliore spiaggia a Tenerife. Lì dove chiunque può vedere dove va a finire una delle metafore/cliché di vita che ci raccontano da quando siamo nati. Essere artefici del proprio destino. Che significa, essere artefici del proprio destino? A Playa de Las Americas a Tenerife, dove gli scogli sono presi a schiaffi dall’Oceano Atlantico, ad esempio, essere artefici del proprio destino significa non avere niente ma avere tutto. Significa non avere niente a disposizione per sfidare Madre Natura e le sue onde ghiacciate. Significa avere tutto quello che basta, cioè un paio di gambe e braccia allenate q.b. e una zattera avant-garde, per alzarsi in piedi e guardarsi dentro/guardando la schiuma sotto di te per una manciata di secondi. Il tempo di cavalcare un’onda, il tempo sufficiente per sapere che nella vita ci sono molte prospettive, ma se non ti sporgi oltre l’orizzonte difficilmente le vedrai.

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Ho una bottiglia di birra gelata, la muta grondante e infarinata dalla sabbia ocra delle Canarie e, in diretta dal fosso che sto facendo sprofondando sulla terra del bagnasciuga, penso che una sessione di surf insieme a Reef a Tenerife sia stata meglio di una seduta psicanalitica. O una lezione di yoga, per essere radical e non troppo radicali. È insieme al brand del beachleisure, fondato nel 1984 in Argentina dai fratelli Fernando e Santiago Aguerre, che scopro l’isola dell’eterna primavera, che surf non vuol dire giocare a chi ha l’onda più lunga, che stare in spiaggia non è solo stare ma, soprattutto, condividere. Condividere un’onda, un angolo di telo mare, una cerveza delicatamente stappata con la suola smart di un sandalo Reef Fanning con apribottiglie. Sì esistono veramente, sì sono assolutamente geniali, sì prendono il nome dal surfista australiano tre volte campione del mondo Mick Fanning.

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Trent’anni fa, quando non esistevano gli hashtag e “il signore delle mele” non aveva ancora coniato modi di dire che iniziassero con stay, i due bros argentini costruivano granellino dopo granellino il loro brand, con un unico obiettivo in mente (feste in villa al tramonto & pinta & vino tinto a parte): stay sandy, beach freely. Ovvero spiaggia liberamente, abbi il coraggio di insabbiarti fino in fondo, sii te stesso quando stai surfando, grigliando, passando il metal detector, costruendo castelli di spiaggia, bevendo in pieno giorno, suonando la chitarra davanti al falò... spiaggia come ti pare.

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Il surfista inglese Mike Lay in dolcissima compagnia di un infradito Reef con cavatappi

Provando a compilare anch’io il mio personalissimo manifesto dello spiaggismo consapevole, scrivo a caratteri cubitali sul bagnasciuga messaggi di felicità. Che certo dureranno pochi istanti sulla sabbia, ma a vita nella mia testa che fa ancora avanti e indietro, (in)seguendo il ritmo delle onde. Forse il surf sull’Atlantico è anche questo, sprazzi di romanticismo inaspettati. Come quando il surfista più carismatico (e oltre) della Cornovaglia (e oltre) ti confessa che, in bilico su un tunnel d’acqua, cerca sempre lo sguardo della sua ragazza che lo aspetta sulla terraferma. Come quando fare beach cleaning sulla spiaggia El Cabezo a Tenerife si trasforma nella scenografia lunare di uno di quei film d’azione ma che poifinisconobene. Come quando imparo che, raccogliere micro pezzi di plastica nascosti tra la sabbia, si dice “asciugare le lacrime di sirena”. Sopratutto se a spiegartelo è una surfista ambassador Reef che assomiglia davvero a una sirena, e maneggia con cura tanto i 73 cotton fioc trovati in 2 ore, quanto una tavola da surf lunga 2 metri. “Mantenere pulite le spiagge non è solo questione ambientale o di buone maniere... per noi che stiamo fino a quattro ore in acqua lo è anche di salute! Pensa a quanti batteri si potevano formare a partire dalle 30 lattine che abbiamo raccolto”. “Jeter par terre, c’est jeter en mer” le fai il verso, dichiarando il motto dell’organizzazione, la portavoce di Surfrider Foundation Europe. Una ONG creata nei Novanta da surfisti eco responsabili e che oggi conta migliaia di volontari e supporters, Reef in primis.

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Lo stesso brand argentino-californiano (los hermanos Aguerre poi si sono trasferiti nella West Coast, chiamali scemi...) che porta avanti progetti monumentali nel nome della sea culture. Dal Reef Redemption, mission a sostegno delle comunità rurali più bisognose, alle collezioni Reef Escape, realizzate in materiali privi di pvc e biodegradabili. Perché e possibile fare la differenza, con la stessa naturalezza con cui ci si lascia cullare lo sguardo da un tramonto caramellato. Perché è possibile (e adrenalinico) imparare a prendere dalla terra (l’onda lunga) e restituire, sempre alla terra, la sua bellezza gentile e schietta. Come sa essere un’onda.

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