Ha messo il turbo. Ogni volta che si visita Bangkok, anche a distanza di poco tempo, si intuisce come questa città viaggi a trecento all’ora. I milioni di stranieri attirati verso queste latitudini faticano ad afferrarla, così come a definirne gli abitanti. Si usa il termine Thainess a indicare il carattere nazionale, un intreccio di Buddhismo Theravada, attaccamento a monarchia e lingua, e un certo orgoglio in settori come tessile, cibo, artigianato. I thailandesi hanno spinto questa identità fino a essere associati a caratteristiche scivolate poi in cliché, per rimanerne infine imprigionati. Anche se questa forte personalità rimane un punto di forza (Discover Thainess è la nuova campagna per il turismo), sono riusciti a farsi avanti in altro modo sul palcoscenico. Senza dimenticare un altro loro talento venuto in soccorso: il genio di saper trasformare ogni più piccolo desiderio del visitatore in un’opportunità.

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La piccola galleria d’arte e fotografia RMA Institute.

Prospera sempre la schiera di sartorie last minute che promettono abiti su misura in poche ore, inclusi quelli tradizionali, che mai e poi mai doneranno a qualcuna alta oltre il metro e mezzo con un accenno di fianchi. Accettiamolo e andiamo avanti. Nel mercato di Chatuchak si contano un numero di scialli in seta “original thai” che nemmeno tutti i bachi del Sud-est asiatico sotto doping potrebbero produrre in tale quantità. Perciò vale la pena superare le prime file per scovare i molti designer che in questo mercato del weekend vendono pezzi originali, dai gioielli all’arredo. Oppure girovagare nella nuova area ThaiThai nel mall Central Childom: una celebrazione della moda autoctona con corner dedicati a giovani stilisti, come Kemissara, Patinya, Vatanika, che vivono un momento di particolare successo dopo la “colonizzazione” dei grandi marchi stranieri. Se avete superato l’adolescenza puntate agli accessori, perché le taglie sono thai-oriented. Ri-accettiamolo e ri-andiamo avanti.

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Kemissara.

La nostra scelta per il souvenir dell'ultima tappa da queste parti è ricaduta su un metro di tessuto disegnato da Sarinya Limthongtip, trentenne fondatrice del brand Srinlim: «Prendo spunto da abiti tradizionali di tutte le regioni e poi ne trasformo i ricami, rendendo la grafica maxi oppure fluo. A quel punto diventano moderne e originali, ma mantengono un tocco thai». Il suo Likay, per esempio, richiama i costumi opulenti dell’omonima danza. Anzi, ci spiega, era diventato un termine negativo nello slang dei teenager (significa “poco cool”), ma lei l’ha reso esplosivamente pop. A dire il vero, per conoscere Sarinya è bastato un viaggio in metropolitana. Era una dei sette giovani protagonisti dell’evento Slow Hand Design all’ultimo Fuorisalone di Milano, uno showcase di talenti curato dal designer Eggarat Wongcharit: «L’Italia pone i suoi riferimenti per il design negli anni 50 e 60, ma li ha trasformati in qualcosa di nuovo. Vorrei succedesse lo stesso per la Thailandia: finora siamo stati solo manifatturieri delle idee altrui, grazie al basso costo della manodopera e alla buona artigianalità, ma è il momento di usare la tradizione per inventarsi qualcosa di originale». Il suo progetto di quest’anno per il Salone del Mobile (14-19 aprile) sarà Eco-A-Mano, incentrato sui materiali riciclabili, nuova frontiera per un paese non particolarmente attento all’ecologia. Da quando, un paio d’anni fa, il concetto di “creative economy” è entrato nelle strategie di sviluppo, il sostegno istituzionale a queste iniziative è stato totale. Luogo simbolo di questa rinascita è il Thailand Creative & Design Centre, ma ogni anno si attende anche il DEmark - Design Excellence Award, consegnato dal primo ministro (chiunque sia in quel momento, date le turbolente vicende politiche). E contemporaneamente proliferano corsi di laurea e conferenze che promettono di stimolare la “creatività”: per nulla scontato in un sistema scolastico impostato e omologante.

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La designer Sarinya Limthongtip.

I sapori della Thainess compariranno (giammai! Un po’ come le lasagne), ma le apprezzatissime specialità, dal pad thai alla zuppa tom yum, avevano bisogno di una spolveratina di contemporaneità. Il nuovo tempio della gastronomia nazionale si chiama Eathai (Oscar Farinetti docet?), inaugurato qualche mese fa nel mall Central Embassy: è una food court “autarchica” con gustosità da tutte le regioni servite stile street food, riscopertosi chic, o da cucinarsi nella scuola Issaya Cooking Studio del celebrity chef Ian Kittichai, pioniere della cucina thai innovativa. A portata di forchetta e cucchiaio (la mise en place thai prevede solo queste posate) si svolgerà invece a Tutto Food (3-6 maggio, a Milano) l’evento Cross Over: protagonisti ingredienti thai doc, ma in ricette internazionali. Obiettivo? Il cibo non è solo identità, ma diventa un vero brand da esportazione.

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Eatthai al Central Embassy.

Addio Full Moon Party! Oggi la zona di Pattaya, una volta circondata da ambigua fama, ospita a dicembre il festival Wonderfuit, dove aleggia un’atmosfera hippie cullata da musica indie, cibo bio e attenzione al riciclo. The Guardian lo ha paragonato al Coachella: sarà di certo meno popolato di vip, ma l’intera Bangkok partecipa, perché lo spirito del “sanuk” (divertimento) thai non è scomparso. Ha solo cambiato destinazione. Quando nel giugno scorso fu tolto il coprifuoco dopo il colpo di stato militare la città era in preda a una frenesia incontenibile. Finalmente si poteva tornare a far festa, da Sukhumvit, l’area colonizzata dagli expat, al quartiere di Ari, la nuova Brooklyn asiatica, hipster q.b. Anche se, a dirla tutta, nemmeno l’esercito era riuscito a fare rispettare l’orario ai party più trasgressivi. Quelli di Dudesweet, Soma Club, Popscene e soprattutto Trasher Bangkok, i cui organizzatori sono famosi per i remake en travesti di video musicali che conquistano con un’ironia irresistibile (persino Katy Perry ha orgogliosamente condiviso il proprio su Twitter).

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Il Wonderfruit Festival.

Testimonial perfette di questa nouvelle vague sono le giovani celebrity che uniscono nel loro dna il meglio di oriente e occidente. Decenni di matrimoni misti (giusto per mantenere almeno un cliché, è quasi sempre il padre lo straniero), hanno dato vita a una generazione di attrici come Urassaya Sperbund (thai-norvegese) o Chompoo Araya (thai-britannica), diventate presto ideali di bellezza e bianchitudine epidermica. A scardinare gli stereotipi è la star di YouTube Winyu Wongsurawat (la mamma è americana): nel suo popolare programma satirico ha avuto il coraggio di criticare l’establishment militare (in Thailandia nessuno scherza sulle complicate vicende politiche): «Uso lo humor per avvicinare i giovani alla politica». Una risata li seppellirà? È la neo Thainess, bellezza.