Colori accesi, infuocati dal cielo che, quando è limpido, non ha rivali. La luce dell'Africa si staglia sulla piazza di Jemaa el-Fna già alle prime ore del mattino, quando i venditori di spezie e gli incantatori di serpenti aprono gli ombrelloni, preparandosi alla giornata che sta per iniziare. Biciclette e tuk tuk che trasportano provviste ai ristoranti al centro della Medina si muovono agilmente e con un certo sprezzo del pericolo – così come delle regole basiche di qualunque scuola guida – con le radio che trasmettono un qualche motivo pop mediato da ritmi molto più orientali, cantilene e litanie che si ritrovano nell'accento dei venditori di tappeti, sul viso stampato un sorriso di autocompiacimento, di chi sa che, anche oggi, riuscirà a raggirare qualche turista alle prime armi, nelle mani la cartellina delle contrattazioni.

Ci sono alcuni angoli di Marrakech che sembrano congelati nel tempo, uguali oggi come durante l'epoca coloniale. A colpire, rimangono i colori, quell'arcobaleno cromatico che va dal terracotta delle sue strade – bruciate dal sole e sempre coperte da un sottile velo di sabbia, spinta chissà come dalla costa – al senape e allo zafferano, dal mattone al rosso borgogna, racchiusi nei sacchi delle spezie fuori dai negozi, come fossero già pronti ad essere mischiati sulla tavolozza, invece che usati per condire spezzatini e risotti.

Ed il colore fu la cosa che colpì maggiormente Yves Saint Laurent, quando arrivò qui per la prima volta nel 1966, in viaggio con il compagno Pierre Bergé, tanto da decidere subito di acquistare una casa, Dar el Hach, chiamata anche Casa dei serpenti, elegante dimora in stile marocchino che divenne il suo buen retiro quando voleva sfuggire alle pressioni di Parigi. Qui passerà diversi mesi all'anno, innamorandosi dell'antichissima cultura berbera – pure mal considerata dal governo marocchino, che la riteneva poco più che sottoprodotto di una genìa di bifolchi campagnoli – collezionando libri e monili, e portando lo spirito della città in molte delle sue collezioni. Cappelli, turbanti e djellaba (i caftani tipici del posto) trovano posto nell'armadio delle parigine, ma soprattutto delle sue amiche e muse, Betty Catroux e Loulou de la Falaise.

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«Prima di Marrakech, tutto era nero. Questa città mi ha insegnato cosa sono i colori e ho abbracciato la sua luce, le sfacciate contraddizioni e le sue intense invenzioni», ammetterà il couturier, che inviterà nella sua magione altri esuli di un certo calibro. Intorno alla piscina, oltre Betty e Loulou, si rilassano Andy Warhol e Talitha Getty, Mick Jagger strimpella un motivo sul pianoforte del salone, ad ascoltarlo Maria Callas e Robert Mapplethorpe.

Forse per via dei suoi natali (a Tangeri, nel 1936) Yves sente un legame con quel paese, una fascinazione persistente che lo porta nel 1980 ad acquistare la famosa villa Oasis del Jardin Majorelle, progettata durante l'epoca coloniale, quando il Marocco era protettorato francese, dall'artista Jacques Majorelle, evitando che divenga un hotel: uno dei più scenografici giardini del paese mette al centro un'abitazione colorata di un acceso blu lapislazzulo (entrato di diritto nel pantone come blu majorelle) e giallo. Avventurandosi tra la flora lussureggiante, papiri, cactus e filodendri trova posto anche un museo berbero, che onora l'antica passione di Yves, tra tessili e monili antichi che facevano parte della sua collezione personale. Proprio nel giardino, sono state sparse le ceneri del creativo, che ha voluto tornare alla terra colorata ed eclettica che lo ha visto felice.

La fascinazione di Marrakech, suadente come le melodie di uno degli incantatori di serpenti del suk, non ha smesso di attrarre creativi e gente comune, incantati da quell'atmosfera che mischia con ironia disincantata sacro e profano.

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Non è dato sapere che posti frequentasse Yves Saint Laurent quando era in città – anche se, si immaginava, preferisse chiudersi nel suo studio di Villa Oasis a disegnare, come lo ritraggono molte cartoline in vendita nello shop accanto la struttura – ma oggi Marrakech vive una nuova primavera, anche grazie al suo influsso creativo. Ha aperto i battenti solo un anno e mezzo fa, ad esempio, il Musée Yves Saint Laurent, voluto da Pierre Bergé, scomparso un mese prima dell'apertura ufficiale.

Pensato dal duo creativo francese dello Studio KO, all'interno della struttura dall'imponente facciata in terracotta ci sono 200 pezzi recuperati dagli archivi, oltre che bozzetti e migliaia di libri sulla moda arabo-andalusa sui quali Saint Laurent studiava. Amante del cinema, all'interno dello spazio c'è una sala con 130 posti a sedere, dove passa senza sosta un video ricordo del creativo e delle sue innumerevoli fonti di ispirazione. La prima opera pubblica di Studio KO, a sceglierli è stato proprio Bergé, che li aveva voluti per ristrutturare una delle sue case a Tangeri, altro avamposto marocchino della coppia. E in effetti a Tangeri c'è un'altra abitazione acquistata da Pierre e Yves nel 1990, Villa Mabrouka, che di recente ha accolto un nuovo proprietario (per una cifra sconosciuta, ma il chiacchiericcio vuole che si tratti di circa 4 milioni di sterline), lo stilista Jasper Conran, che probabilmente lo trasformerà in un hotel.

Tornando al centro della città, oggi, i tramonti infuocati si osservano dai tetti delle costruzioni al centro della piazza, la musica lounge che copre con un certo imbarazzo la vita che scorre senza posa al mercato. All'ora del tramonto, però, i volumi di musica e suoni si abbassano per una strana magia, forse si sente il richiamo del muezzin, mentre si guarda il panorama dal tetto della Terrasse des épices, del Nomad o da quello di Chabi Chic, i teli in cotone ruvido e colorati dalla sabbia, che proteggono dal sole.

Se le accolite contemporanee di Betty Catroux sospirano di fronte alle vetrine di Lalla, con le sue borse in suède e frange, quelle più ligie alla tradizione passano ore tra gli scaffali di Topolina, tra loafer con stampe tribali e metri di tessuto vintage, che odora probabilmente di sabbia e rose del deserto.

E le ore si passano anche, ovviamente, nel suk, alla ricerca di monili berberi come Yves Saint Laurent e Pierre Bergé, o tappeti: la sosta obbligata, per sfuggire alla calura, alla folla, agli operai sempre intenti nel rifacimento del manto stradale a sassi della Medina, è quella in un qualche riad, giardini oggi convertiti in ristoranti o boutique dove comprare caftani o bere un tè, oppure fare entrambe le cose. Una porta in ferro battuto dalle dimensioni ridotte, quasi difficile da identificare se non fosse per la presenza, alle ore di punta, di un solerte e imponente addetto alla sicurezza, consente l'accesso ad un corridoio di un verde trifoglio, ricoperto di specchi di variegate forme e dimensioni. Si arriva così a Le Jardin, e si fa fatica ad andare via, ad alzarsi da quei divani in quello stesso verde, da mezze e hummus, per convincersi a continuare il pellegrinaggio necessario a portare a casa i tappeti e i monili di cui forse, si è già dimenticata l'importanza.

Il vero salto nel passato, però, è quello che si compie entrando al Grand Café de la Poste, nato in origine come avamposto e ristoro per chi ci arrivava dopo un lungo viaggio su una jeep graffiata dalla sabbia, e con una sahariana. Forse chissà, se questa scena c'è mai davvero stata, ma il fascino del Grand Café de la Poste è anche quello di spingerti con l'immaginazione, scavando in ricordi e stereotipi nostalgici. Nato originariamente negli Anni 20, qui però, senza dover ricorrere alla fantasia, ci veniva davvero il signor Jacques Majorelle della famosa villa, e si intratteneva per pranzo con il generale Louis Hubert Gonzalve Lyautey, ufficiale delle truppe coloniali con un baffo invero un po' sovietico. Un pezzo di storia che ricorda facilmente un altro locus della memoria cinematografica, geograficamente non troppo distante, il Rick's Cafe a Casablanca, dove Humprey Bogart, nell'omonimo film, beveva bourbon accanto al piano.

Se il Rick's Cafe però non è mai esistito fuori da quel set, almeno fino al 2004, quando è nato un locale dallo stesso nome che ne voleva evocare la magia, il Grand Cafè de la Poste fa leva su una storia reale. Chiuso per diversi anni, ha riaperto nel 2005: la ristrutturazione è stata anche in questo caso affidata alla Studio KO, che ne ha rispolverato il fascino senza trasformarlo in un feticcio turistico e kitsch.

Le mattonelle bianche e nere; la scalinata art déco che occupa l'ingresso e conduce ai due livelli superiori; gli imponenti vasi in terracotta dai quali esplodono piante, palme e felci che sembrano invadere gli spazi con una certa discrezione; l'ultimo piano dove, retaggio di un'epoca passata e di un'aerazione invidiabile, si può ancora fumare mentre si ascolta un concerto jazz. Non sarà il mistero meglio tenuto di Marrakech – e infatti è consigliabile una prenotazione – ma il suo fascino continua ad ammaliare anche oggi.

Un fascino che possiede anche El Fenn, hotel molto più recente (del 2004) con 28 stanze, ricavate da una casa privata, della quale si innamorarono all'epoca Vanessa Branson e James Howell. La coppia alla ricerca di una casa dove passare le vacanze, vide la bellezza oltre gli strati di polvere che ricoprivano i giardini e i tre cortili semi-distrutti e chiese all'architetto marocchino Amine Kabbaj di aiutarli nell'impresa.

Città che è un'oasi in mezzo al deserto, forse per questo motivo i suoi abitanti e i suoi architetti la riempiono di piante appena possono. Se al Grand Caffè de la Poste il loro posto è nella miriade di vasi in terracotta accoccolati vicino alla scala, da Le Salama scendono direttamente dal soffitto. Sui tavoli tondi ci sono i fez, dalle ampie vetrate si osserva il panorama notturno, sorseggiando un vino locale, o cercando di avvistare qualche celebrity holliwoodiana in città per girare qualche film, che viene qui per sfuggire alla folla, senza ovviamente riuscirci troppo bene. Il posto è in effetti ritrovo di una certa giovane e rampante borghesia locale, ma la sua magia farà chiudere un occhio sulla incombente gentrification.

D'altronde, Marrakech piaceva anche ad uno che non aveva certo gusti semplici: Winston Churchill, che la definì come “il posto più bello sulla Terra dove spendere il pomeriggio”. E proprio durante un pomeriggio del 1943, impegnato a Casablanca con il presidente americano F. Roosevelt per un summit, lo convinse a visitare quella che aveva chiamato la “Parigi del Sahara”, per il contrasto tra il deserto e le montagne Atlas che la circondavano, e che gli avevano ispirato diversi dipinti.

«Non puoi arrivare fino in Nord Africa e non vedere Marrakech: andiamo lì per un paio di giorni. Voglio essere con te quando vedrai per la prima volta il tramonto dietro le montagne» pare abbia detto al “collega”. Un aneddoto raccontato dalla stessa nipote del primo ministro inglese, Celia Sandys, nel libro Travels with Winston Churchill. Lo porto così a Villa Taylor, anche se per i suoi soggiorni lui sceglieva solo la Mamounia, hotel leggendario e ancora oggi simbolo stesso della città e della sua architettura. La Villa, però, di proprietà di un affluente newyorchese, aveva una torre dalla quale ammirare il panorama. A quella torre, Roosevelt, costretto su una sedia a rotelle, ci arrivò in braccio a due uomini del suo staff, su richiesta dello sbrigativo Winston. Quando si trovò faccia a faccia con quel panorama, Roosevelt non ne nascose l'emozione. Messosi su un divano della terrazza, pare disse a Churchill, non senza una certa ironia, «mi sento come un sultano: puoi baciarmi la mano, my dear»

Che poi è come ci sentiamo tutti, all'ora del tramonto a Marrakech.