Allontanandosi dal fracasso mediatico di questi giorni si scopre una Calabria incantastorie, dal ritmo battente e dalla musica incoraggiante. È la Calabria di artisti come Danilo Montenegro, scomparso nei giorni scorsi a causa del Covid-19. Una perdita che ha lasciato un vuoto ma al tempo stesso aperto uno squarcio in una narrazione eterodiretta, in cui la musica non è via di fuga ma di restanza. Montenegro e i suoi compagni di viaggio, su questa terra aspra e meravigliosa, hanno sempre nutrito e seminato speranza con il canto popolare.

Nato a Moladi di Rombiolo, in provincia di Vibo Valentia, Danilo Montenegro si era stabilito molti anni fa a San Giovanni in Fiore, dove ha insegnato disegno dal vero ed educazione visiva all’istituto statale d’arte. “Era un artista a 360 gradi” dice di lui la figlia Ilaria, che fin da bambina lo accompagnava sul palco suonando il flauto traverso. Il papà, invece, era “il miglior suonatore di chitarra battente” sostiene Otello Profazio, antesignano in Calabria di un ricco filone artistico devoto al canto e alle tradizioni popolari.

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Danilo Montenegro

“Lo chiamavano incantastorie perché era forte e carismatico, ti attraeva come una calamita, aveva una voce che ti spostava” ricorda Ilaria di quell’uomo dall’aspetto fiabesco, inconfondibile, sempre in barba e capelli lunghi. “Nutriva un amore sconfinato per la Calabria ed era animato da un forte senso di giustizia” racconta ancora la figlia, ripercorrendo un’esistenza artistica contrassegnata dalla lotta contro i padroni di ogni tempo. Inclusi quelli senza corpo di oggi, capaci di condizionare il pensiero in modo subdolo come i giganti della rete. “Vogghiu gridari” cantava Danilo Montenegro, raccontando di “Mani tosti”, quelle dei contadini, brutte e callose, indurite dal lavoro e svuotate dagli anni, ma sempre capaci di arricriare l’occhi e lu cori con una carezza dolce d’amuri. Non temeva censure, Montenegro, neanche le subiva perché le sue storie le portava per strada, le faceva viaggiare, fino a raggiungere gli operai in fabbrica in Germania, dove è andato più volte a suonare imbracciando la chitarra battente come fosse un’arma contro le ingiustizie. Un’arma che sapeva usare molto bene.

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Danilo Montenegro e sua figlia Ilaria dipingono

Basti pensare che “una volta, durante una festa dell’Unità, lo stesso PC gli chiese di non suonare Sciogghij lu gruppu perché era un brano molto forte contro la corruzione politica” ricorda Raffaele Rizza, sassofonista di Roccabernarda, che per tanti anni ha collaborato con Montenegro insieme ad Enzo Ziparo, chitarrista di Santa Severina.

Ma che ci facevano dei jazzisti con un musicista etnopopolare? “Be’, già alla fine degli anni ’70 – spiega Rizza - pur amando il jazz sentivo forte il richiamo delle mie radici rispetto alla cultura americana. Mi ponevo il problema di come fare jazz calabrese. Danilo, nonostante la sua coerenza rispetto alla tradizione popolare, aveva una grande apertura mentale e molto coraggio artistico. La musica etnopopolare si contamina spesso con il pop, il rock, perché così è più orecchiabile , vendibile. La contaminazione jazzistica è cosa per pochi perché complessa, non fa ballare ed è tutta da ascoltare”.

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Raffaele Rizza

La vita di Danilo Montenegro si intreccia a quella di tanti artisti calabresi che, reinterpretando la tradizione dei vecchi cantastorie, danno ritmo al presente con un orecchio teso al passato e lo sguardo volto al futuro. Lo spirito battagliero anima molti protagonisti di queste narrazioni e i loro interpreti. La catanzarese Francesca Prestia, per esempio, ne è testimonianza, unica donna qui, in punta di Stivale, affermatasi nel ruolo di neo cantastorie tradizionalmente maschile. “Ho dedicato da subito molta attenzione al mondo femminile - spiega – perché è poco presente nel repertorio tradizionale calabrese. Poi ho fatto delle scelte stilistiche. Ho sostituito i lunghi racconti di 30/40 minuti con le ballate di circa 3 minuti, introdotte da un breve cunto. Suono una chitarra battente piccolina, che mi sono fatta costruire apposta, adattata all’estensione vocale femminile. Quanto alle storie, sono partita dalle donne degli scritti di Corrado Alvaro, dal Ritratto di Melusina o La pigiatrice d’Uva, per arrivare alle vittime della violenza mafiosa, come Lea Garofalo”.

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Francesca Prestia sul palco della prima edizione del Festival svoltosi questa estate a Catanzaro "Cuore Catastorie" di cui la Prestia è direttrice artistica.

Una colonna portante di questo mondo è Otello Profazio, insignito nel 1981 del prestigioso Premio Pitré dal Centro Internazionale di Etnostoria di Palermo, e del Premio Tenco alla carriera nel 2016. “Il canto e le tradizioni popolari sono stati la mia vita” dice. “I cantastorie nascono quando non c’erano i giornali, non c’era la radio, figuriamoci la televisione. E raccontavano i fatti: la peste, i tradimenti, la vita comune o le importanti notizie di cronaca. Con l’avvento dei giornali e della radio la gente era già informata, allora i cantastorie più bravi hanno iniziato a commentare i fatti. Io mi inserisco in questo filone”. Una strada di successi, la sua, puntellata di brani apprezzatissimi come Qua si campa d’aria o Governu talianu, intelligenti, ironiche e a tratti amare provocazioni di e da una Calabria poetica e fantasiosa.

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Francesca Prestia e Otello Profazio

Da vero e proprio tarantolato, alla chitarra battente ha preferito il tamburello, Nando Brusco, giovane interprete della Calabria che canta e cunta. Tamburo è voce si chiama lo spettacolo che porta in giro per il mondo. “Fin da piccolissimo ballavo la tarantella ovunque” racconta. “Non riuscivo a resistere a quel ritmo che poi mi è stato facile riprodurre nell’approccio con il tamburello. Ma da subito ho iniziato uno studio approfondito sul tamburo a cornice, un percorso artistico ed esistenziale. Dal piccolo teatrino domestico dei racconti di mia nonna sono riaffiorate storie, sentimenti e valori. Mentre nella ricerca ho scoperto la voce dello strumento”. Suoni che a tratti sostituiscono completamente la parola nelle performance di Brusco, con lo straordinario effetto di amplificare il significato di una narrazione dal forte impatto emotivo.

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Nando Brusco

La Calabria incantastorie ha il volto di una regione che può. Basta volerlo, a più livelli, non solo quello istituzionale. “Quando mi dicono che in Calabria non si può fare niente vado in fibrillazione” racconta Nando Brusco. La rabbia gli viene da quel “continuo racconto stereotipato su di una landa desolata che non riesce ad esprimere un commissario alla sanità piuttosto che realizzare il piano anti-Covid. Un racconto di cui ormai sono stanchi i calabresi per primi. Per carità, qui ci sono tante cose negative – riconosce - assolutamente innegabili, dalla ‘ndrangheta alla corruzione. Ma esiste da sempre – rivendica - ancor prima che venissero fuori le querelle di questi giorni, una Calabria che con dignità porta avanti la sua identità altra. Questa è una terra aspra e difficile piena di contraddizioni. Se arrivi con la pretesa di capire tutto e subito, non vedi niente: i giovani che sono tornati, quelli che non sono mai partiti e che sottotraccia, giorno per giorno, costruiscono un futuro migliore. Qui ci sono grandi opportunità in ambito turistico, culturale, nel campo dell’agricoltura. Certo, bisogna rimboccarsi le maniche. Per anni hanno incatenato la gente al mito del posto fisso da chiedere all’amico da ringraziare con un gallo a Natale, sviluppando una sorta di dipendenza. I calabresi si stanno accorgendo che tutto questo è finito”.

La Calabria, se costipata in un punto di vista, diventa piccola come un cecio. Invece è lunga, con 800 chilometri di costa, monti aspri e misteriosi che custodiscono sorprendenti risorse da valorizzare. Della sua bellezza e complessità sono interpreti e testimoni i suoi incantastorie, ambasciatori di cultura e tradizioni, portatori sani di un atteggiamento più giusto nei confronti della vita, non solo della Calabria. Ora che la pandemia ci ha costretti a fermarci, si potrebbe volgere uno sguardo a Sud da un altro punto di vista. Allontanandosi dal baccano dei media e lasciandosi trasportare da questa musica ribelle, bella, fantastica come la realtà, reale come la fantasia.