Troppe mani ragazza mia? In realtà, questo ritratto realizzato dalla fotografa etiope Aïda Muluneh, ti acciuffa senza usarle. Affascina con la quantità di colore, cultura, identità e metafore che offre alla rappresentazione dell'individuo contemporaneo. Alle numerose sfumature e contraddizioni che concorrono a definire l'essere umano da sempre, a nutrire il dibattito più acceso di oggi e la riflessione della nuova collettiva del MoMA. Quella dedicata ogni due anni ai nuovi orizzonti della fotografia e alle tematiche delle sue contaminazioni. Nel 2018 ai diciassette sguardi e obiettivi, scelti per l'esplorazione di Being: New Photography 2018, allestita al terzo piano della Edward Steichen Galleries (fino al 19 agosto 2018) del prestigioso The Museum of Modern Art di New York (MoMA).
Il MoMA che ha messo a fuoco le similitudini dell'uomo in tutto il mondo, con l'imponente collettiva The Family of Man di Edward Steichen nel 1955, torna a riflettere sulla rappresentazione dell'umanità con gli obiettivi più attenti a cambiamenti e universalità delle esperienze umane. Il lungo viaggio con la rappresentazione delle mille facce e trasfigurazioni l'essere umano, passa per 80 nuove opere di 17 artisti, differenti per stile, nazionalità e temperamento, accomunati dal fatto di essere in maggioranza donne e vivere in luoghi diversi da quelli di origine (migranti per indole e necessità). A partire dalla italo-libica Adelita Husni-Bey, nata a Milano nel 1985 e unica rappresentante italiana della collettiva, ma non dell'arte d'immaginare alternative, per la quale continua a trarre ispirazione da pratiche educative anarchiche e da quelle di formazione del MoMA.
Partendo dal vivace dibattito su diritti, responsabilità e rischi della rappresentazione di se e degli altri, le opere che animano Being la esplorano, insieme alla percezione che ne abbiamo e potremmo ampliare, spaziando dalle questioni di privacy a quelle di genere, dal ritratto alla sua visualizzazione più concettuale, nella quale si riesce comunque a riconoscere l'essere umano.
Io amo rappresentarmi con quello che si spinge oltre i connotati, per arginarne più i cliché dei rischi, ma questi ci sono e per qualcuno si spingono ben oltre le questioni di privacy. Sfumature interessanti arrivano in mostra con i ritratti migranti dai volti e le caratteristiche identitarie oscurate nel Passport Photos di Stephanie Syjuco (americana nata nelle Filippine, 1974). Pericoli che hanno radici profonde ma anche dinamiche contemporanee, come quelle messe in evidenza dalla fotografa con la ritrattistica etnografica del XIX secolo della serie Cargo Cults, presa in prestito con le tradizioni e trame etniche svendute dai produttori occidentali (in ogni ritratto c'è ancora il cartellino del capo restituito dopo lo scatto).
Sempre meglio non fidarsi delle apparenze. Hiding Our Faces like a Dancing Wind (2016) di Yazan Khalili (Palestinese nata in Siria, 1981), utilizza software di riconoscimento facciale su immagini fisse e in movimento, sfidando le consuetudini contemporanee sulle apparenze di individui associati a un dato luogo, etnia o cultura.
L'estratto del progetto dell'indiano Shilpa Gupta, si concentra sulla rappresentazione di 100 individui, costretti per varie ragioni a cambiare cognome e la loro immagine, incorniciata e divisa in due, rilegge da nuove prospettive anche l'identità frammentata dell'individuo.
L'americana Carmen Winant, usa l'installazione site specific My Birth (2017-18), per riempie due pareti (dal pavimento al soffitto) d'immagini di donne che si preparano per il travaglio e il parto, insieme alle dinamiche di rappresentazione di realtà sempre meno nascoste.
Figures, Grounds and Studies dell'americano Paul Mpagi Sepuya si spinge ben oltre, con frammenti di immagine e collage delle intersezioni di razza, genere e desiderio, costringendo ogni spettatore a confrontarsi con le proprie prospettive da nuovi punti di vista.
The opposite of looking is not invisibility. The opposite of yellow isnot gold, nasce dalla collaborazione delle americane Hương Ngô e Hồng-Ân Trương e dai loro album di famiglia, con gli scatti anni 70 delle madri, entrambe immigrate negli Stati Uniti dal Vietnam. Sono scatti intimi di famiglia, ad affiancare estratti di trascrizioni delle udienze del Congresso degli Stati Uniti sui rifugiati vietnamiti, fornendo nuove letture a termini come "alieni" o "illegali".
L'americana B.Ingrid Olson sfida la comprensione dell'identità, incorniciando fotografie di figure o parti del corpo, compresa la sua, all'interno di altre immagini o all'interno di scatole acriliche. L'artificio dietro lo spettacolo della rappresentazione fotografica si manifesta in modo palese con le maschere della brasiliana Sofia Borges e, in modo completamente diverso ma analogo, con quella che appartiene al corpo di lavoro del fotografo americano Matthew Connors. Realizzato nel corso di cinque viaggi in Corea del Nord, tra il 2013 e il 2016, l'approccio metaforico del progetto documentario non fa sconti all'inaffidabilità della narrativa contemporanea.
Le fotografie trasformate in oggetti da amare come i ricordi, animano gli scatti dell'archivio personale dell'americano Em Rooney, incorniciati da strutture di tessuto, metallo, vetro e ceramica. Un po' come quelle dell'americano Harold Mendez prese nella Necrópolis Cristóbal Colón e altri siti funerari cubani. In entrambi i casi la rappresentazione dell'umanità sa fare un uso creativo di simboli e metafore (ma potremmo anche spingerci oltre).
La mostra curata da Lucy Gallun, assiste curatore del Dipartimento di Fotografia del MoMA, esplorando le molteplici forme che l'immagine fotografica può assumere nella rappresentazione dell'essere umano, continua ad arricchire lo sguardo sul contemporanea del museo. A partire dalla prima edizione di New Photography, inaugurata da John Szarkowski nel 1985 e rinnovata ogni due anni, il MoMA ha introdotto le nuove opere di oltre 100 artisti di tutto il mondo, confermandosi un importante punto di riferimento per l'analisi di nuovi stimoli e tendenze.