A cent’anni dal suffragio femminile inglese e a un anno dalla nascita di movimenti quali #MeToo e #NoSurprise, tutti i riflettori, del mondo dell’arte e non solo, sono puntati sulle donne, sulle storie e sulle battaglie, ma soprattutto sulla loro forza di condurle. Social Works, è la sezione di Frieze London che celebra non solo la volontà di cambiamento che sta attraversando la società, ma anche la necessità di guardarsi indietro, riconsiderando gli errori del passato e impedire che si ripetano di nuovo. Un progetto, lanciato per il secondo anno consecutivo dalla piattaforma Frieze, che ha fatto chiacchierare notevolmente il milieu culturale londinese: curata da un board di sole donne, 11 tra storiche e critiche d’arte, ha coinvolto otto affermate gallerie chiamate a esporre mostre personali di artiste che hanno sfidato il mercato tra gli anni 80 e 90, spesso uscendone sconfitte (e sottovalutate). Una cassa di risonanza senza precedenti per questi lavori sempre attuali che, esposti gomito a gomito nella fiera più prestigiosa del mondo UK, paiono comunicare tra loro e sprigionare tutta l’irriverenza e l’energia che i tabù sociali avevano fino a questo momento subissato.

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“Potrei dire che gli anni 70 sono stati per me i più formativi, poiché la mia esperienza nel movimento femminista non solo ha dato forma alle mie opere, ma ha reso possibile e necessario alzare la voce, in un momento in cui le donne erano realmente invisibili” afferma Mary Kelly sul numero di Frieze dedicato all’Art Week londinese. L’esperienza citata da questa artista (tra le più quotate della sezione), si riferisce alle “comuni” svoltesi durante le rivolte sociali di quegli anni, in cui uomini e donne abitavano assieme scambiandosi i ruoli sociali. Mary Kelly è stata una pioniera nel dimostrare come una donna possa essere artista e madre allo stesso tempo, concentrando la propria esperienza nella sua opera concettuale. In Social Works viene presentata, per la prima volta all’interno di un contesto commerciale, Corpus, che esplora il rapporto tra le donne di mezza età e la percezione del proprio corpo: per tre anni l’artista ha documentato le conversazioni scambiate con le donne della propria generazione, riportando le loro parole su pannelli scritti a mano, alternati da immagini pubblicitarie e fotografie mediche che si accaniscono contro la figura della donna. Come rivela al The Art Newspaper “La domanda che volevo sollevare è, che cos’è una donna? Che ne è delle donne più anziane?”.

La centralità del corpo all’interno dei lavori di tali artiste è la chiave di volta. È il caso anche di Helen Chadwick che, grazie al rapporto tra performance e installazione, ha ispirato profondamente il lavoro dei YBA, il gruppo degli Young British Artist (da cui è emersa anche la star Damien Hirst). Rappresentata dalla Galleria Richard Saltoun, le sue serie fotografiche e sculture riempiono le pareti dello stand: tra i suoi lavori più provocatori, In The Kitchen, raffigurante una tragicomica parodia della perfetta casalinga. Tali scatti, immortalano il corpo dell’artista inserito in pose plastiche (si può dire praticamente incastrato) all’interno di diversi elettrodomestici, parodie anch’essi. Così il suo volto fa capolino da una lavatrice (dalla forma dell’oblò che ricorda volutamente una vagina), diventando essa stessa oggetto. Ancora questa forma ritorna nei due lavori Adore e Abhor, dalle superfici allusivamente ricoperte di pelliccia. Come scrive la direttrice della Whitechapel Gallery Iwona Blazwick infatti, “la sua rappresentazione del corpo femminile è pervasa da un intenso desiderio, che ha trasformato l’arte britannica del ventesimo secolo.” La più disturbante opera di Helen Chadwick invece è Loop, la fotografia che immortala un fascio di capelli biondi attorcigliarsi con un tratto di intestino tenue, mostrando la doppia lettura della donna, considerata talvolta figura angelica e talvolta animale fatto di carne e sangue.

L’arte femminista da sempre gioca con l’immaginario comune della donna, portandolo però a conseguenze inimmaginabili: la galleria Stevenson, direttamente da Cape Town, presenta Still, l’opera dell’artista sudafricana Berni Searle che unisce la riflessione gender alla questione etnica. Otto fotografie, sospese e disposte a quadrato, immortalano l’artista durante una performance a porte chiuse. Riverso su un pavimento cosparso di farina, il suo corpo lascia delle orme e tracce, che creano un contrasto tra il bianco del materiale e la sua pelle nera. L’installazione, dall’aspetto mistico-spirituale, appartiene a un insieme di opere dal titolo Colour Mein cui Searle ricopre il proprio corpo con pigmenti e spezie dai toni più disparati. Un viaggio tra culture arcaiche è invece dato dalle tele di Nancy Spero, in cui iconografie greche, azteche e preistoriche sottolineano il ruolo della donna di ogni tempo. Rappresentata dalla Galery Lelong & Co di Parigi, è stata una delle prime femministe ad attraversare, in cinquant’anni di carriera, differenti movimenti artistici.

Una fiera tinta di rosa (se questo è ancora il colore attribuibile al discorso femminista) la Frieze di quest’anno, che, nonostante l’ottimo risultato ottenuto da Social Works, rimane comunque lo specchio di un mercato poco generoso nei confronti delle donne: come ricorda The Art Newspaper, solo nella Main Section, la sezione principale di Frieze, la presenza femminile nelle gallerie resta circa del 39% contro il 61% rappresentato dagli artisti uomini. Un dato che diventa ancora più desolante se confrontato con il mondo delle aste: tra i lotti dell’ultima auction di Sotheby’s, solo due lavori su un totale di 42 appartenevano a un’autorialità femminile. Insomma, lunga vita a iniziative di tale portata ma, se c’è ancora tanto da lavorare sul contesto culturale, ci sarà da rimboccarsi davvero le maniche su quello economico.

La strada da percorrere verso l’eliminazione del gender gap è ancora lunga ma costellata da figure coraggiose, che ci dimostrano che la conquista è faticosa, ma possibile. Basta non arrendersi