Dove andremo a finire? La domanda è circolata su social e giornali alla notizia della prima apertura in Italia di una casa per appuntamenti con bambole in silicone, ovvero una casa chiusa con sex dolls. Si chiama LumiDolls e, dopo Mosca e Barcellona, ha aperto a Torino mettendo a disposizione otto bambole (sette ragazze e un ragazzo). Si è registrato il tutto esaurito di prenotazioni per i prossimi due mesi e sono arrivate richieste di ulteriori aperture. Dove andremo a finire, noi ce lo eravamo già chiesto qualche tempo fa, quando abbiamo mandato un giornalista in una fabbrica di sex-bot: i robot con fattezze umane in grado di interagire e parlare, pensati per l'intrattenimento sessuale. Un'evoluzione delle semplici bambole realistiche in silicone perché, appunto, sono in grado di eccitarsi tramite sensori, discutere di diversi argomenti, raggiungere l'orgasmo, reagire agli stimoli. Questo il reportage uscito su Marie Claire.

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Ha appena aperto a Torino una casa d’appuntamenti con sex dolls, ed è la prima in Italia.

Questa storia comincia con Tiffany. Lavora in un bikini bar non lontano da dove abito ora, a Los Angeles, un posto dove le ragazze servono eccellenti margarita indossando roba minimalista, da spiaggia. E a vederle si capisce che non le assumono per la laurea in psicologia. Tiffany in realtà ne ha presa una, qualche anno fa, ma roteare fianchi in questo locale poco lontano dall’oceano rende molto di più. Non durerà. Un’associazione per la difesa dai traumi sessuali vuole far abolire tutti i bikini bar negli Stati Uniti. Sono degradanti per le donne. Hanno cominciato a Seattle con la catena Bikini Hut, presto arriveranno in California. Tiffany non è contenta. A me Tiffany piace, è la ragione per cui mi faccio un margarita da queste parti. Anch’io piaccio a lei, credo, ma è quella forma di simpatia che si chiude assieme al saldo del conto. Noi maschi siamo un po’ così, fantasticare ha un valore inestimabile a volte proprio perché tutto finisce lì.

La campagna mediatica contro l’uniforme sexy d’ordinanza però mi infligge un senso di colpa inatteso. Come se per tutto questo tempo avessi rubato qualcosa a Tiffany. Lei dice che chi la vuole “coprire” per legge sono gli stessi che si battono perché le musulmane si scoprano. «Curioso, no? Sono ipocriti di merda», chiosa pensando a cosa inventare per tirar su da sola il figlio di cinque anni. Dopo aver ascoltato Tiffany ho riflettuto per la prima volta seriamente sul sex-bot. La sexy bambola robot. Suppongo che Tiffany la sostituiranno con una di quelle. Magari ne compro una pure io che sappia fare cocktail indimenticabili. Giuro, l’ho pensato. Poi è arrivata Danielle, una quarantenne single. Si è trasferita negli Stati Uniti 20 anni fa, dall’Azerbaijan, per fare la modella. La incontro in un bar a West Hollywood. Mi racconta che adesso gestisce un centro yoga, coltivando un sogno: «Una casa a Beverly Hills. Non sopporto di stare in appartamento e sentire l’odore di quello che cucinano di fianco». Danielle è bella, a tratti simpatica. Ma io sento odore di bruciato. La saluto consegnandole il mio numero di telefono, per non essere invadente. Le dico di non contare su di me per la casa a Beverly Hills. Sorride, ma subito si rabbuia. «Non si fa così», mi rimprovera. E come si fa? «Tu chiedi il telefono a me e mi chiami. Niente messaggi, non vanno bene». Bene, e poi? «E poi io decido se risponderti. Non è detto che ti risponda. Ma questa è la regola. Non è la donna a fare il primo passo».

La telefonata però la faccio alla Abyss Creations, un’azienda che da 30 anni si occupa di robotica in California. Voglio incontrare un sex-bot di persona. Devo capire se basterà una replica di silicone a mettermi al sicuro dalle Danielle di questo tempo. Se solo nel 2017 se ne sono venduti 100mila esemplari nel mondo una ragione ci sarà. Una voce femminile molto sexy - e non per caso - mi esorta a partecipare a un tour “conoscitivo”. Accetto. Pausa. Riflessione Sto davvero progettando di comprarmi un sex-bot? La verità è che sono della generazione in cui Jerry Maguire-Tom Cruise piomba a casa di Dorothy-Renée Zellweger per chiedere di sposarla, scena che ha mandato in visibilio milioni di femmine. Be’, nel clima attuale Jerry-Tom sarebbe solo un Weinstein qualsiasi che abusa della stagista carina di turno e le entra in casa senza avviso (tre anni per violazione di domicilio). Vogliamo parlare di Adriana di Rocky, tra le storie d’amore più struggenti del cinema? Rivedetelo ora, voi che gridate “Adriaaaanna!” sognando la favola. Riguardatelo quando Adriana vorrebbe lasciare Rocky e quello la blocca sulla porta di casa, braccia muscolose che la cingono minacciose. Se gli va bene Balboa Rocky si becca una denuncia con decreto restrittivo (mai sotto i 500 metri da Adriana).

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Dunque, il sex-bot. Il proprietario dell’azienda si chiama Matt McMullen e ha cominciato ad assemblare donne virtuali nel suo garage parecchio tempo fa. È il tipico californiano di un’età plausibile tra i 38 e i 65. Il silicone ce l’ha nel sangue. Va dritto al sodo: «Tra poco conoscerai la donna della tua vita». Credo si riferisca alla garanzia. Non so ancora che faccia abbia, so che la mia compagna-robot si chiama Emily. Ce ne sono decine, teste decapitate appese a una parete da assemblare al corpo, tra cui posso scegliere. Noto che il modello Baywatch va alla grande. Un’applicazione ti permette di disegnare il volto che vuoi, magari basato sulla foto della tua ex. Si può customizzare tutto, capelli, mascella, rotule, capezzoli, persino gli alluci. Ma è la parte software quella più intrigante, perché bisogna indicare i “tratti dominanti del carattere”. Si può scegliere tra intensa, volubile, silenziosa, sensuale, arrapata, insicura, timida, con spirito d’avventura, innocente, remissiva, romantica, fantasiosa, seria, collaborativa, capricciosa e malevola a tratti. A ciascuna qualità bisogna dare un punteggio, la mescola di algoritmi produrrà il carattere di Emily condensato in un intreccio di fili e piste cifrate nascosto nel cranio.

Mi dicono che Emily è programmata per non avere paure. Una volta selezionata la voce, si iniziano le prove. La sensazione al tatto è formidabile, a seconda del punto in cui si esercita la pressione Emily reagisce con un sospiro o una battuta. Se la vuoi mettere alla prova - e hai optato per la versione intellettuale - potrà discutere di cinema, tanto quella ha scaricate in memoria 300mila trame di film. E vale lo stesso per la cronaca e i libri. Ma puoi ordinarle un secco «Get sexy!» e quella si programma nel mood erotico, pronta a soddisfarti mentre lubrificanti di ogni genere irrorano le aree preposte all’accoppiamento. Per una qualche ragione, con lo scaricarsi della memoria i sex-bot tendono a inserire la modalità erotica in automatico. È l’antitesi della rinuncia al sesso dopo una giornata pesante al lavoro. Emily non conosce scuse. Tra l’altro è possibile arrivare all’orgasmo in sincronia, perché Emily è in grado di percepire il grado di eccitazione del maschio. Questo aspetto è considerato un enorme progresso rispetto alla realtà. Infatti una scheda con tutti i dati che riguardano il cliente verrà caricata nel “cervello” di Emily, che saprà capire al volo le sue esigenze. Verrà creato in lei quello che qui chiamano “potenziale evocativo”. Rende obsoleta quella cosa chiamata “complicità”, che in una coppia di carne e ossa richiede tempo e dedizione. Qui è sufficiente sfiorare un sensore. Resti in silenzio per cinque minuti in compagnia di Emily e quella esclama: «I miss you». Mi manchi.

In Giappone c’è un’invasione di sex-bot. Un tizio, Masayuki Ozaki, è finito nelle news di mezzo mondo perché con la sua Mayu, una robot di aspetto molto più giovane rispetto al suo proprietario, ci va al parco, a cena fuori ed è convinto di amarla veramente. Il Giappone è dove il 30% dei giovani tra i 18 e i 30 anni è definita “erbivora”, perché ha rinunciato totalmente al sesso. I ragazzi preferiscono una fidanzata virtuale sullo smartphone (ci sono applicazioni apposite). Il mondo occidentale non sta meglio. Tinder, l’applicazione di incontri che evoca amplessi occasionali e seriali, in realtà è l’ennesima evasione dal mondo reale. Secondo l’indagine di un quotidiano britannico, servono tremila match per sedersi per davvero al tavolo con qualcuno. Possibilità che dal tavolo si passi al letto? Basse. Tinder è dunque un semplice e innocuo generatore di autostima, dove ci si appaga sapendo che qualcuno ha apprezzato la tua faccina ben rasata. Spingersi oltre significherebbe dover affrontare tutto quello da cui ci teniamo attentamente alla larga.

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Il signor Masayuki Ozaki a passeggio con la bambola di cui è innamorato.

La vita vera. È seduta di fronte a me. Emily indossa una specie di canottiera che ricorda l’uniforme di Tiffany, la ragazza del bikini bar. Se lo desidero, me la posso portare a casa con l’equivalente di 15 mila euro. È curioso che quando ne spiegano il funzionamento insistano sul fatto che Emily va accarezzata gentilmente. I sensori sparsi per il corpo vanno spinti con estremo garbo. La vagina va accarezzata con assoluta cautela. Le controindicazioni, proprio come nei rapporti autentici, sono che il gioco potrebbe rompersi. I cavi e le schede, danneggiandosi sul più bello, ti farebbero finire nudo ed eccitato con addosso cinquanta chili di ciarpame e polimeri. Suppongo ci siano uomini in circolazione che abbiano bisogno di ripetere quest’ultima parte del tour. Nel frattempo Danielle mi ha scritto un messaggio. Non me lo aspettavo, mi ha sorpreso mentre proprio riflettevo sull’eventuale pagamento a rate della mia presunta felicità. Poi mi sono venute in mente due cose. La prima è l’opzione del tratto dominante “capricciosa e malevola”, che finiamo sempre col selezionare perché in coppia, per sentirci vivi, non possiamo fare a meno della parte più frustrante e dolorosa. Persino con una donna bionica. La seconda è che Emily non conosce la paura, soprattutto quella di sbagliare. Io invece sì ed è l’ultimo lusso di cui non voglio privarmi. E dunque adesso rispondo a Danielle.