«Se educhi un uomo educhi un individuo, se educhi una donna educhi una nazione» (proverbio ghanese e motto di Samia Nkrumah, prima leader femminile a guidare un partito politico).
Primordiale, divina, femminile. Una grande madre dell'umanità come l'Africa ha figli ovunque. Samia Nkrumah è una delle sue politiche più impegnate, ma a sposarne convinzioni e obiettivi, è anche chi punta sullo sviluppo del continente con la forza della creatività. Sulla dirompente rappresentazione della forza e della spiritualità della donna africana, arrivata al MoMA di New York con la fotografa Aïda Muluneh, protagonista della prossima edizione di Addis Foto Fest (AFF) (6-10 dicembre 2018), con il proposito ambizioso di unire l'Africa e il mondo con la fotografia. Un potente strumento di comunicazione, capace di toccare le sfumature più vitali di un continente complesso, cambiandone l'immaginario distorto da secoli di pregiudizi e stereotipi.
Cambiare il modo nel quale il mondo e gli africani vedono l'Africa (insieme alla sua anima più ancestrale e femminile), ha segnato profondamente lo sviluppo artistico e personale della pluripremiata fotografa e imprenditrice culturale etiope Aïda Muluneh. Cresciuta in Yemen e in Canada, studiando a Washington e lavorando come fotoreporter per il Washington Post. Prima di sperimentare un linguaggio più artistico e tornare nella capitale etiope di Addis Abeba, dove ha fondato la società di consulenza artistica DESTA per l'Africa (DFA), insieme all'Addis Foto Fest che questa organizza e sostiene dal 2010. Per questa ragione la biennale internazionale di belle arti, fotogiornalismo e fotografia di moda, considerata uno dei principali Photo Festival del continente, è sviluppata come un crocevia di scambio culturale delle immagini d'Africa che arrivano dal mondo intero.
In questa quinta edizione con tutta la Fortia ("Forza") di Keyezua. Scelta come immagine guida (anche di questa segnalazione), insieme all'eterno femminino simbolico che rappresenta. Imponente, in sontuoso abito rosso e maschere fatte a mano da un gruppo di artigiani affetti da disabilità, come quella ha segnato profondamente l'infanzia e l'identità dell'artista angolano-olandese che vive e lavora a Luanda. La forza di una dea madre a prova di violenza e calamità, come quella rappresentata dalla studentessa Lebo Thoka, nata e cresciuta a Johannesburg. Gli autoritratti del suo It Is Well: An Ode to Karabo, riducono il corpo a memoriale delle modernità in stato di perenne guerra civile, con un omaggio alle sue vittime di femminicidio.
A rappresentare le donne e lo spirito più fragile, forte e femminile d'Africa e della sua diaspora, sono anche molti uomini. L'ugandese Noor Okulo con il progetto Flower Tales, in risposta all'elevato numero di rapimenti e omicidi a scopo di estorsione che coinvolgono le donne. The Dark Matter Project del keniota Brian Siambi si concede l'esplorazione della moda africana e della bellezza della pelle scura, scoperta sfatando il mito di quella chiara con la quale è cresciuto.
Puntando l'obiettivo su attività esclusivamente femminili che ne influenzano l'emancipazione, soprattutto nelle comunità africane più emarginate, Drummies della sudafricana Alice Mann, fotografa le giovanissime majorette che suonano il tamburo in divisa e cappello piumato. Seat of Honor dell'ugandese Stacey Gillian Abe, si tutta nel profondo della sua anima e delle rappresentazioni stereotipate di se stessa come donna di colore, legando, cucendo e sperimentando le trame di luce che sondano genere e identità, spiritualità e misticismo.
Il ricco calendario di appuntamenti e percorsi espositivi tocca anche anomalie intriganti. Spinte oltre la dimensione spazio-temporale del sublime con Ballenesque e la retrospettiva del celebre sudafricano Roger Ballen. Ai margini di Città del Capo, con l'area ERF81 e la famiglia eccentrica che la difende dall'avanzata della gentrificazione, fotografata dalla sudafricana Sally Low. Nei territori isolati dell'Estremo Nord della Russia, con Out-of-the-Way della russa Elena Anosova. La generazione «à fleur de peau» ritratta dal progetto Body Talks della tunisina Héla Ammar, sfida le coordinate sulla rapprentazione del corpo politico e l'identità di noti attivisti, blogger, ballerini, designer, reporter e imprenditori che rinunciano alla notorietà ma non a lottare per la libertà.
Una collettiva di fotografi caraibici contemporanei, curata da Grace Aneiza Ali, punta diversi obiettivi su molte più sfumature della provocatoria relazione tra i suoi paesaggi marini e il corpo femminile. Sabaya / ايابص della giordana Tanya Habjouqa, si concentra sulle ragazze che si affacciano all'età adulta, ritratte in Giordania, Palestina e tra i rifugiati iracheni, siriani e somali. Diversi progetti toccano la migrazione femminile, mentre l'egiziana Hana Gamal la estende a tutti con il suo We're All Fugitives. "Fuggiaschi da ingiustizie politiche, economiche e / o sociali; fuggiaschi da speranze e sogni perduti; fuggitivi dai ricordi malinconici; fuggiaschi da realtà sgradevoli; fuggiaschi dalle nostre paure, dal nulla; fuggitivi dall'amore; fuggiaschi dalle nostre vite e forse anche noi stessi".
Il programma dell'Addis Foto Fest è ancora fitto, tra presentazioni, workshop e letture portfolio, i suoi fotografi arrivano da ogni angolo di mondo, ma il viaggio è solo all'inizio e l'Africa ha molto da dire al mondo.