«Le persone che oggi mi conoscono per la prima volta sono incredule se per caso vengono a sapere del mio passato. A soli 23 anni, però, ho imparato che l'essere umano messo alle strette può sbagliare molto più facilmente di quanto si creda. Non posso incolpare le “cattive compagnie” per le rapine, perché è nato tutto da me. Avevo 17 anni e non mi servivano soldi per droga o discoteche: volevo solo rimanere insieme alla ragazza per cui avevo perso la testa. Può sembrare un po' semplice spiegata in questo modo, ma davvero non saprei cosa altro aggiungere.

Sono cresciuto a Milano, in una famiglia semplice, originaria del Bangladesh. Dopo il primo anno di scuola superiore ho lavorato in un'officina e nel bar di mio padre. Insomma non ero uno che se ne stava con le mani in mano. Le estati le trascorrevo a Ravenna, dove abitava una parte della mia famiglia. Quella volta, a settembre, decisi di non tornare a casa perché mi ero innamorato. Così mi sono fermato dai miei zii, con grande rabbia dei miei genitori. D'estate non era un problema trovare lavoro, ma d'inverno, quando la riviera si svuotava, le opportunità erano davvero poche. Mi sono trovato a corto di soldi, soprattutto dopo aver litigato anche con i miei zii ed essere andato via da casa loro, spostandomi di giorno in giorno sul divano di qualche amico.

Mi hanno arrestato nel febbraio del 2010, quando ero ormai maggiorenne. Dal carcere di Rimini ho avuto gli arresti domiciliari, per questo sono tornato a Milano dai miei genitori. Sono rimasto più di un anno e mezzo recluso in casa, senza mai un'ora d'aria. Quel periodo mi ha distrutto: attraversavo delle crisi e soffrivo d'insonnia, perché un ragazzo di quell'età ha troppa energia da sfogare in quattro mura. Tenevo sveglia la mente seguendo corsi online, soprattutto di informatica. Mia mamma non si capacitava, mio padre mi sosteneva in silenzio: ai suoi occhi non sono mai stato piccolo. La mia ragazza prendeva il treno da Ravenna per venirmi a trovare, ma a un certo punto è stato chiaro che era il momento di lasciarle costruire la sua vita. Nel frattempo, tramite amici, avevo conosciuto la mia attuale compagna, che per prima decise di dichiararsi. Non avevo niente da offrirle né sapevo cosa ne sarebbe stato di me. Non potevo neanche uscire per portarla al cinema come fanno tutti. È rimasta incinta pochi mesi prima della mattina in cui i carabinieri hanno bussato alla porta per portarmi all'Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria. Oggi posso dire che andare in istituto invece che al carcere per adulti è stata la via d'uscita verso il cambiamento.

Varcata la soglia del Beccaria si salgono le scale a sinistra verso il gruppo “accoglienza”: in quei primi giorni cercano di capire che tipo sei, se sei socievole e puoi andare d'accordo con tutti. Dopo si passa al gruppo 1 o 2 e, una volta dimostrato di volersi impegnare in un progetto, si può essere accettati nel gruppo “avanzato”. Dove sono arrivato in meno di un mese, senza ancora le idee chiare sul futuro. Non sapevo che la mia personale rivoluzione sarebbe partita da un la storia pugno di farina, acqua e lievito. All'inizio non esisteva né il laboratorio di panetteria né il progetto collegato “Buoni Dentro”. Bel nome, vero? Tutto è nato grazie agli sforzi di Claudio Nizzetto, responsabile del progetto per Fondazione Eris, e Lorenzo Belverato, ex vicepresidente dell'Associazione panificatori di Milano e provincia, un artigiano in pensione che ha volontariamente prestato le sue conoscenze e il suo tempo. Dovreste conoscerli, sono una strana accoppiata: due signori dai capelli grigi a cui bastano tre secondi per litigare, rappacificarsi e trovare una soluzione al problema che ha causato la lite.

Da subito Lorenzo è stato il mio maestro e ha spinto affinché il progetto si sviluppasse in senso imprenditoriale. La questione non era preparare due focacce per poi mangiarle in compagnia: noi ragazzi dovevamo guadagnare dal nostro lavoro. Dovevamo, diceva, imparare a rispondere del nostro impegno e toccarne i risultati. Grazie all'appoggio della Società Agricola Cooperativa Sociale Co.A.Fra abbiamo avuto il primo registratore di cassa, che potevamo gestire da soli. Ogni mattina si raccoglievano gli ordini interni all'istituto, si preparavano pane e focacce e si riscuoteva il dovuto. Gestivamo anche ordini stagionali da vendere all'esterno per Pasqua e Natale (il nostro panettone ha persino ricevuto il marchio di fedeltà alla tradizione dalla Camera di Commercio di Milano). Sono sempre stato negato a cucinare, eppure in laboratorio ho scoperto di avere un certo talento per questo mestiere. Non ti fermare al buono, diceva sempre Lorenzo, devi puntare all'ottimo. Il pane è un bellissimo simbolo: arriva dalla terra, è fatica e sudore. Se un ragazzo riesce ad applicarsi con il pane, significa che vuole fare qualcosa della sua vita.

Il mio avvocato a un certo punto mi ha avvisato della possibilità di richiedere i domiciliari. Non ho voluto: in istituto avevo un'entrata minima che potevo destinare a mia figlia e non mi sentivo pronto. Mi ha consigliato di cogliere l'occasione perché magari il progetto poteva incontrare delle difficoltà, ma gli ho risposto che, al contrario, le cose potevano anche migliorare. Come in effetti è stato. Lorenzo e Claudio hanno lavorato su due fronti: da una parte hanno trovato un panettiere tramite l'Associazione panificatori che fosse disposto a prendermi in tirocinio, dall'altra hanno ottenuto una borsa di lavoro con il Comune affinché ricevessi un compenso. Rimaneva da convincere il giudice a scrivere “sì” sul foglio di permesso. Per ottenerlo, secondo me, avranno anche detto qualche preghiera. Per una persona esterna dev'essere difficile giudicare qualcuno sulla carta: doveva essere sicuro che non avrei combinato niente. E io sapevo che se fosse successo qualcosa, non sarebbe stato facile ottenere quel permesso per i ragazzi dopo di me. Ho dovuto dimostrare a tutti, fino all'ultimo giorno, che era giusto darmi fiducia.

Mi svegliavo alle sette e alle otto ero già a impastare. Ho seguito tutti i giorni la stessa strada, sia all'andata sia al ritorno, come prescritto. Compivo ogni passo pensando alla mia bambina che era nata nel frattempo. Insieme agli operatori e ai compagni del corso di falegnameria, le avevo costruito una culla, che conserviamo ancora oggi. Il mio rimpianto è di averla vista solo al terzo giorno di vita, perché, a causa di un problema burocratico, il permesso di uscita non è arrivato in tempo. Ho atteso quei giorni circondato dal dispiacere di tutti. Lorenzo, però, è corso subito in ospedale, per potermi dire: «È identica a te».

Con tanta testardaggine e fatica Claudio e Lorenzo sono persino riusciti ad aprire da poco una panetteria esterna, che impiega alcuni ragazzi sotto la supervisione di un maestro artigiano (si chiama Pezzi di Pane, in piazza Bettini 5, a Milano). Nel frattempo, però, il mio percorso era finito: ho avuto un contratto determinato nel panificio del tirocinio e trascorro le mie giornate tra i sacchi di farina e i giocattoli di Peppa Pig della mia bimba. Continuo a sentire i vecchi compagni, alcuni fuori, altri ancora dentro l'istituto, e mi interesso di chi sta seguendo i corsi nel laboratorio di panetteria. Sono anche andato a ritirare un premio per conto del progetto, e, per quanto potrei facilmente tagliare i legami con il Beccaria, non è nelle mie intenzioni, perché è stato grazie a “Buoni Dentro” che ho avuto l'opportunità di costruirmi un nuovo inizio. Per questo ho voluto raccontarvelo».

Testimonianza raccolta da Laila Bonazzi