Un'avventura incredibile ma vera è quella di Emilia e Angiolo, coppia di Empoli rimasta senza azienda e lavoro a 60 anni. Una vita di fatica e successi sembra finire con il fallimento della loro fabbrica di calze, ma poi una proposta folle si rivela la chiave per ripartire: trasferirsi in Cina e trovare lavoro alla loro età non è certo stato facile (hanno diretto una fabbrica con diecimila operai), ma alla fine sono rimasti per ben dieci anni. La loro storia è stata raccontata dal regista Nicola Contini nel documentario "Il segreto della calze - Hold me tight(s)", che sarà proiettato nella sezione concorso Italia al Biografilm Festival di Bologna (10-20 giugno). Emilia ha raccontato a Marie Claire la sua vita, tra gioie e difficoltà.

«Mi chiamo Emilia, ho 70 anni e sono alla mia terza vita. La prima è iniziata in Lucania, a Sant’Angelo Le Fratte. Pochi soldi, nove figli da mantenere, e quando è arrivato il momento di scegliere solo i miei fratelli maschi sono andati a scuola. Ho dovuto lasciare in quinta elementare e ancora oggi è un grande rimpianto. La mancanza di studio mi è sempre pesata: ovunque ho incontrato persone di una certa cultura e per stare al loro fianco sentivo di fare uno sforzo. Senza cultura la vita è più faticosa. Poi siamo finiti in Toscana: a Empoli mia mamma mi ha subito trovato un impiego, ero talmente piccola che andavo in fabbrica su una bici con le due rotelle dietro per stare in equilibrio.

All’epoca si poteva avere il libretto di lavoro dai 14 anni e ancora ricordo come mi nascondevano quando arrivavano per i controlli. Al calzificio rammagliavo, cucivo, stiravo e confezionavo: un’esperienza in tutti i campi che si è rivelata davvero preziosa. Sono passata da piccola operaia a vera esperta di calze da donna, calzini, autoreggenti e collant. E il lavoro mi appassionava a tal punto che alla fine sono persino diventata direttrice della fabbrica.

In calzificio ho anche conosciuto Angiolo. Un grande amore? Ah, io non parlo in questo modo! Però ci siamo sposati subito e siamo insieme da allora, questo basta a raccontarlo. Abbiamo avuto tre figli. La mia più grande soddisfazione? Averli fatti tutti laureare solo grazie al nostro lavoro. A un certo punto andava talmente bene che abbiamo aperto una piccola fabbrica di calze in società con altre persone: fatica, passione e tenacia ci hanno ripagato e per diversi anni abbiamo conosciuto un certo successo. Ero diventata un’imprenditrice. Chissà quante signore hanno indossato i nostri collant durante gli anni 80! Mille negozi sparsi per l’Italia e qualcuno all’estero. Producevamo anche su commissione di grandi marchi francesi. Certo è stata dura, con tre figli da crescere non è una passeggiata, ma la fatica non mi ha mai spaventato.

Poi, lo sappiamo tutti, le cose hanno iniziato a peggiorare. Abbiamo lottato in tanti in quegli anni. Contro i colossi che mettevano fuori i prodotti a prezzi stracciati, contro le circostanze economiche, forse anche contro un destino sfortunato. Alla fine si è dovuto ammettere che la crisi ci aveva battuto e abbiamo chiuso il calzificio. Questa è stata la fine della mia seconda vita. Eravamo disoccupati, quasi sessantenni e con una famiglia ancora a carico. Il tracollo ci ha sopraffatto, ma forse ha colpito mio marito più duramente: per gli uomini è un po’ diverso e quella fabbrica era come il suo quarto figlio. Ho iniziato subito a darmi da fare come donna delle pulizie o assistendo persone anziane: alla fine il lavoro umile mi ha sempre appagato molto.

Finché ci è arrivata quella folle proposta. Un nostro ex cliente del calzificio ha chiesto ad Angiolo se volesse provare ad avventurarsi in Cina per mettere su una fabbrica efficiente come era la nostra. Angiolo è partito con nostro figlio e sono finiti a Yiwu. E io, badate, mai lo avrei detto che sarebbe diventata la nostra nuova casa. Cosa sapevo della Cina? Che era l’ultimo posto al mondo dove sarei voluta andare! E capivo benissimo l’ironia di dovermi ricostruire una vita e un lavoro laggiù mentre tutti quei cinesi iniziavano a trasferirsi in Toscana. La sorte riesce sempre a sorprenderci. All’inizio pensavo che mio marito avrebbe fatto partire la produzione e poi sarebbe tornato ogni tanto a controllare. Invece ci è rimasto un anno intero!

È stato strano ritornare separati dopo tanto tempo in cui non ci eravamo mai allontanati l’uno dall’altra. Io dall’Italia spedivo tutto quel che serviva, compresi macchinari speciali per controllare e misurare le calze. Poi è toccato a me: ho chiesto a mia figlia di accompagnarmi dato che era il primo viaggio così lungo e non parlavo nemmeno una parola d’inglese. I primi due mesi sono dimagrita cinque chili perché proprio non riuscivo a toccare cibo. Come responsabili della produzione, stavamo in fabbrica dalle sette del mattino fino alla sera (alla mensa avrò mangiato solo mais al vapore per due anni). A volte ci chiamavano anche di notte quando combinavano qualche guaio. Era una fabbrica immensa, esagerata, con diecimila dipendenti, qualcosa che non avevo mai visto.

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Sentivo l’istinto di prendere il primo aereo per casa ogni singolo giorno: pensavo ai miei ragazzi, ai pranzi tutti insieme, alla nostra casa sempre piena di chiacchiere. Io e Angiolo ci davamo il cambio tra l’Italia e la Cina per stare dietro ai figli, a mio cognato che si era ammalato, poi a mia sorella rimasta sola. Mi sono persa tante cose, per esempio non ho aiutato le mie figlie a mettere su casa, ma sono riuscita a presenziare a tutte le loro lauree. Non me le sarei perse per niente al mondo.

Quanto è stato difficile tornare a vivere da sola! Riabituarsi a non trovare nessuno a casa alla sera. Ho pianto molto, ma non sono una che si annoia, per cui ho persino iniziato a scrivere un libro di notte, oppure mi svegliavo all’alba e andavo al parco, che al mattino è pieno di gente che fa ginnastica o balla. Mi guardavano come una mosca bianca, perché ai tempi lì vivevano pochissimi stranieri, e di certo nessuna donna italiana sopra i sessant’anni.

Abbiamo imparato a conoscerci, io e i cinesi. Sono arrivata con il mio carattere ruvido: preferisco essere diretta con le persone perché solo così possono difendersi. In principio mi arrabbiavo parecchio quando commettevano qualche errore, ma solo perché sapevo che possedevano tutte le capacità per fare bene. Era difficile gestire il personale visto che a ogni capodanno c’era grande ricambio e dovevamo istruire nuove persone da capo. Per me era inconcepibile non affezionarsi alla fabbrica, ma capivo che andavano a cercar maggior fortuna altrove. Le ragazze spesso tornavano in campagna per sposarsi. Una volta un’operaia giovanissima mi ha pianto davanti perché i suoi le avevano trovato marito. «Non puoi dire che non ti piace?», chiedevo, ma gli interpreti non volevano tradurre: «Non funziona così, deve tornare e sposarlo. Ormai è deciso».

È stata una relazione complicata anche con i manager. Poi ho capito le loro insicurezze e che dopo una sgridata dovevo subito dare una carezza. Nel tempo hanno iniziato a rispettarmi, ad afferrare perché insistevo tanto sulla qualità del prodotto: i primi tempi non esistevano altri calzifici ma poi la concorrenza ha fatto selezione. A un certo punto è anche arrivato Nicola, un amico di mio figlio, per girare un documentario. Pensavo fosse uno scherzo. Mi diceva che ero nervosa come Robert De Niro in Taxi Driver. Non ho mai capito bene cosa intendesse. Nel film è racchiuso un soffio di questi dieci anni cinesi.

Forse è arrivata per noi l’ora della pensione, di iniziare una quarta vita di nuovo a Empoli, ma sento le lacrime agli occhi se penso di andare via di qui. Una decade non si cancella con un colpo di spugna. L’anno prossimo celebriamo i cinquant’anni di matrimonio e organizzeremo una grande festa in Cina. Oggi so che mischiare due culture ingrandisce la mente. Persino io ora sono meno rigida, più aperta su tante cose (confesso: solo con il cibo non sono migliorata!). Di certo io e Angiolo abbiamo capito che non bisogna arrendersi mai, perché si trova sempre una soluzione, magari in un altro continente. E in quel caso mettete in valigia un’enorme dose di grinta».

Testimonianza raccolta da Laila Bonazzi