«È sempre così. Quando in un paese va tutto bene, pensi sempre di avere tempo per visitarlo e così rimandi il viaggio. Finché dalle prime pagine dei giornali leggi che non è più il caso di andarci». Io ed Elisa Sednaoui teniamo in mano una cartina di Beirut di qualche anno fa, trovata per caso. È ancora segnata la stazione dei bus turistici per andare a fare una gita in Siria. Siamo in aeroporto, abbiamo appena riacceso i cellulari che ci salutano con un sms affettuoso: «Il ministero del Turismo ti dà il benvenuto in Libano». Nell’area del ritiro bagagli non c’è praticamente nessuno. Per vederla affollata si deve aspettare agosto, quando si riempie di milioni di libanesi che per varie ragioni vivono all’estero. Anche di europei, e in generale di occidentali, non ce n’è quasi traccia in questo momento. Infatti, prima di partire, le mail dei siti di viaggio avevano intasato la mia casella “posta in arrivo”: i prezzi di Beirut non sono mai stati così bassi, approfittane!

«Sono venuta altre volte in Libano, mio nonno vive qui, ma di siriano ho ormai solo il cognome. Significa “gente di Saidnaya”, che è una città a nord di Damasco». Parole della modella e attrice Elisa Sednaoui, 28 anni, che accompagniamo nella sua prima missione da testimonial dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, da pochi mesi sotto la guida di Filippo Grandi, primo Alto Commissario italiano. L’occasione non è delle più liete: sono esattamente cinque anni dall’inizio del conflitto in Siria e il Libano ha assunto un ruolo fondamentale per l’emergenza sempre più drammatica dei profughi. Ancora non lo sappiamo, ma l’abilità di comunicare di Elisa, abitante delle due sponde del Mediterraneo (è nata in Egitto ed è cresciuta in Piemonte), la farà scivolare con estrema delicatezza nelle case di chi ci ospiterà e non soltanto grazie al fatto di saper chiacchierare in arabo e vincere così i primi momenti d’imbarazzo. «Per me tutto passa dall’istinto», mi spiegherà dopo un paio di giorni. «Anche se non conosco la vita quotidiana dei siriani, ho scoperto che i codici di comunicazione e di interazione sono simili a quelli egiziani».

immagine non disponibilepinterest
Getty Images
Elisa Sednaoui con bambini siriani in Libano.

Decine di organizzazioni internazionali affollano il centro di Beirut, impiegando la gioventù più colta e istruita del paese. Passeggiare lungo la “corniche” sul mare o nella zona storica non è un problema. Ma per noi è off limits il quartiere meridionale di Bourj el-Barajneh, ferito dall’attacco di novembre scorso e occupato da un campo di profughi palestinesi dagli anni 50. Del resto, per l’emergenza siriana non è stata autorizzata la costruzione di nuovi campi: in parte il traballante governo libanese non voleva dare l’idea che fosse una situazione destinata a diventare stabile, in parte (forse) non si è capita subito la portata della faccenda. Dal “Reception Center” di Beirut l’Unhcr gestisce circa 1 milione 68 mila rifugiati per la quasi totalità siriani (e una piccola percentuale di iracheni), che vivono sparsi in circa duemila insediamenti affittando sottotetti, garage, terreni su cui montare capanne improvvisate. Considerando che si stimano cinque milioni di libanesi, la popolazione è aumentata di un quinto ed è difficile non notare le tensioni in aumento.

immagine non disponibilepinterest
Getty Images

Per opportunità politica il governo ha bloccato le registrazioni di profughi a maggio scorso. Questo, ovviamente, non ha fermato il flusso. Molti sono in fila questa mattina per prendere il numero ed essere chiamati allo sportello: guardano con curiosità Elisa con il suo gilet azzurro. La complessa organizzazione dell’Unhcr stupisce per l’efficienza. Chi arriva per la prima volta si sottopone allo scan oculare (più preciso e meno imbarazzante delle impronte digitali, ci spiegano) e poi consulenze legali allo sportello tre, assistenti sociali al quattro e così via. Le foto di rito con Elisa non si fermano: «Sapevo che venendo qui c’era il pericolo di spettacolarizzare, appagare un certo voyeurismo del dolore, persino dare l’idea dell’autopromozione. O accettavo i rischi o me ne stavo a casa».

Raggiungiamo un piccolo appezzamento a nord della città con sette tendoni scaldati a stufa e rivestiti dei teli antipioggia dell’Unhcr: qui l’inverno è particolarmente rigido, così come le estati torride. «Non posso smettere di pensare che Mahiya, la prima ad accoglierci con i suoi cinque figli, abbia la mia età», racconta Elisa, «e che non sappia dove sia finito suo marito. Morto? Imprigionato? Non lo sa, così come molte siriane nella sua condizione». Nessuno ti insegna il galateo della conversazione in queste situazioni, Elisa non vorrebbe discuterne davanti ai bambini. Ma in ogni incontro i genitori parlano con straordinaria dignità dei loro problemi, che siano una malattia o la scelta di quali figli mandare a scuola, spesso irraggiungibile per i costi di trasporto. Un ulteriore shock per queste famiglie - che perlomeno di cibo, medicine e istruzione non hanno mai sofferto la mancanza - è accumulare debiti con proprietari di casa, negozianti, ospedali e restituire i soldi si rivela un’impresa. Tecnicamente, per mantenere lo status di rifugiato si firma con il governo un “impegno a non lavorare”, ma nella pratica i controlli ai check-point sono più rigidi per gli uomini adulti. È quindi meno rischioso per bambini e ragazzi guadagnare qualcosa con lavoretti saltuari. Oppure, come ci sussurra una signora a Plage Nour, se hai la sfortuna di essere donna e per di più nubile, subisci ricatti che potete benissimo intuire. Qualcuna cede? «Non so. Nessuna ne parla apertamente o lo confesserebbe mai. Ma è anche per tutelarsi che le ragazze si sposano molto, troppo, giovani».

immagine non disponibilepinterest
Getty Images
Ex resort sulla spiaggia di Plage Nour.

Plage Nour sarebbe una cornice perfetta per un romanzo corale: è un ex resort sulla spiaggia, dai decadenti muri rosa e con le palme rinsecchite, che ci immerge nelle atmosfere da turismo anni 60. Oggi è abitato da circa duecento persone, che pagano affitti intorno ai 350 dollari al mese. Qui le voci corrono, le donne chiacchierano sugli usci e, quando possono, tutti si aiutano, soprattutto nello scambio di informazioni, merce preziosissima quando si atterra spaesati su un nuovo pianeta: come ottengo questo documento? Come si fa richiesta per la carta bancomat del sostegno alimentare? Dove trovo la lista degli ospedali convenzionati con Unhcr? Per questo Unhcr sfrutta un mezzo efficiente ed economico per diffondere le informazioni: internet. È complementare al passaparola di una fitta rete di “Refugee Outreach Volunteers”, i siriani che tengono i contatti con le comunità. Il sito web refugees-lebanon.org contiene spiegazioni e tutorial girati dai volontari su temi come scuola, salute e cibo. Dal centro Unhcr di Beirut partono catene di sms che sono diffuse, tramite volontari, anche su chat WhatsApp: per avvertire di una tempesta di neve o degli ennesimi truffatori che promettono nuovi passaporti. «Lo smartphone è vitale perché conserva le immagini della tua vita precedente e permette di condividere informazioni», considera Elisa. E a chi dice che avere un cellulare sia segno di benessere superfluo, facciamo notare che un sms costa meno di un viaggio a Beirut e fa risparmiare le organizzazioni umanitarie che, altrimenti, per ogni comunicazione dovrebbero spedire milioni di lettere.

immagine non disponibilepinterest
Getty Images
Una piccola festa per accogliere Elisa Sednaoui in visita da una famiglia di rifugiati siriani.

Nelle stanze piccole e ammuffite di Plage Nour, Elisa prende in braccio un neonato di due mesi (a casa l’aspetta il suo, di quasi tre anni). Si commuove. Così come un momento di tenerezza lo vive parlando con i suoi fratelli maggiori, oggi adolescenti. Una categoria, quella dei teenager, che non abbiamo mai incontrato in questo viaggio: molti, come abbiamo già detto, cercano di raggranellare un po’ di soldi nelle macellerie, nei campi o nei cantieri. Gli occhi di uno di loro, 16 anni, tormentano Elisa: «Erano quelli di qualcuno che vede solo nero perché sa che ha poche prospettive. Che cosa gli puoi dire?». Al loro papà, Samer, chiede quando hanno lasciato il paese. Le risponde: «Ci siamo spostati nove volte prima di oltrepassare il confine. Non è semplice abbandonare tutto in un colpo solo, prima scappi da un bombardamento, poi ti sposti per cercare un ospedale e così fino in Libano». A Plage Nour i ragazzi perlomeno riescono a mantenere relazioni con persone esterne alla famiglia. L’amicizia è un privilegio quando vivi isolato in una tenda circondato solo da parenti. Ma il peggior nemico, anche se suona ironico, è il tempo libero: è troppo, diventa una maledizione perché ti fa pensare.

immagine non disponibilepinterest
Getty Images

Il lato pragmatico di Elisa Sednaoui si riflette nella scelta di questa missione: occuparsi di re-insediamento, ovvero la modalità di essere accolti legalmente in un paese grazie ad accordi stipulati tra Unhcr e governi. «Sono realista, non amo i discorsi intellettualistici. Mi concentro su quel che posso fare concretamente», spiega. E continua: «Mi interesserebbe proporre in Europa le sponsorship private, che in paesi come Canada e Australia stanno funzionando. Il governo concede il visto e i privati finanziano viaggio e accoglienza, siano aziende o, perché no?, altre famiglie. Naturalmente, in questo processo c’è sempre una ong che fa da tramite tra le parti».

La pratica dei reinsediamenti di siriani dal Libano è già partita: l’Italia si è impegnata ad accogliere quasi duemila rifugiati entro la fine del 2017. «È strano pensare che questi bambini diventeranno inglesi, norvegesi, italiani. Chissà cosa ricorderanno di questi anni. Come i loro genitori, anche io avrei preferito diventassero dei siriani felici. Dovranno tenersi strette le proprie radici. Quando sono arrivata in Piemonte dall’Egitto ho dimenticato completamente arabo e inglese, volevo solo essere come gli altri bambini di Bra. Provo tenerezza perché so cosa li aspetta», racconta Elisa. La selezione delle famiglie che devono partire è curata da Unhcr sulla base di criteri come donne a rischio, motivi di salute, vittime di tortura. Non a caso quelle che incontriamo l’ultimo giorno, una ha come meta la Gran Bretagna e l’altra l’Italia, hanno dei figli malati. «Hai notato?», mi dice Elisa, «tutte e due parlano di altri: parenti, amici, vicini di casa che hanno bisogno di aiuto. Chi è stato accettato per il reinsediamento si sente fortunato e vorrebbe dare una mano a tutti quelli che conosce e lascia lì».

immagine non disponibilepinterest
Getty Images

«È vero che da voi i bambini potranno curarsi e studiare?», ci chiedono i genitori in partenza per l’Italia: la loro preoccupazione si confonde con la curiosità dei figli che finalmente, dopo un anno e mezzo di trafila, sentono la partenza vicina. Carlotta Sami, portavoce Unhcr, vuole tranquillizzarli: «Tra un mese rivedrete la mia faccia in aeroporto, non vi preoccupate, sarete i benvenuti e tutti saranno gentili». Promessa nella quale certamente crede, ma l’istinto pragmatico di Elisa interviene: «Dovrete essere pazienti, molti italiani vivono delle difficoltà, i loro cuori sono chiusi perché stanno cercando di capire quest’emergenza. Con il tempo, le cose arriveranno». Tutto in arabo, tranne un «arrivederci». Mentre queste pagine vanno in stampa, la famiglia ha appena preso il suo aereo da Beirut.

La guerra in Siria entra nel suo sesto anno: nel 2015 l’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati ha distribuito aiuti nel paese a tre milioni di persone e cure mediche a quasi 800 mila, mentre in Libano si occupa di un milione di rifugiati. Per sostenere l’UNHCR si può fare una donazione online, tramite bonifico bancario (IBAN IT84R0100503231000000211000) o con bollettino su conto corrente postale 298000.