Sono cresciuto vicino al confine che divide in due l’Irlanda, negli anni Settanta e Ottanta, quando era ancora una frontiera fortemente presidiata, con i controlli doganali e le basi militari. Da casa nostra, nella Repubblica d’Irlanda, circa una volta al mese andavo con mio padre in Irlanda del Nord. Quando arrivavamo vicino alla base militare che presidiava la strada lui smetteva di parlare. Varcare il confine gli metteva ansia, ma ne valeva la pena perché dall’altra parte avrebbe risparmiato. Allora tante cose costavano meno in Irlanda del Nord, compravamo i generi alimentari per tutta la settimana e i prodotti per la casa.

Venivamo fermati e ci facevano domande. Ricordo i soldati, i fucili, le voci gracchianti alla radio. Anche se non temevi i militari, quel confine era comunque un posto inquietante e minaccioso. Gli hard borders (i confini strettamente sorvegliati con barriere e controlli, ndt) sono anche entità emotive. Sei sempre in tensione quando a farti delle domande è un uomo con un mitra in mano. Varcare la frontiera voleva dire confrontarsi con il nostro senso di identità, chiedersi chi pensavamo di essere e dove credevamo di avere il diritto di stare. Dove finisce esattamente, sembrava domandarmi quel confine, il tuo senso di appartenenza? È una domanda che oggi affrontano i rifugiati e gli immigrati e con la quale, per un certo periodo, ha avuto a che fare chi viveva sull’Irish border.

La dogana era qualcosa di intimidatorio e ostile anche per chi andava dall’Irlanda del Nord alla Repubblica d’Irlanda. Diversi nordirlandesi non lo hanno mai attraversato fino a dopo il Good Friday Agreement (Accordo del Venerdì Santo, ndt) del 1998, patto multilaterale tra il governo britannico, il governo irlandese e la maggioranza dei partiti politici nordirlandesi che ha portato all’attuale situazione di pace. Così, in giro per la mia città ho incontrato dei nuovi esploratori, nordirlandesi che venivano da questa parte per la prima volta. Ricordo una coppia che sembrava molto stupita, piena di meraviglia come se i due avessero appena sollevato delle assi del pavimento di casa e scoperto lì sotto un seminterrato che era sempre rimasto nascosto. Mi hanno spiegato (e sono sicuro che fosse un’esperienza abbastanza comune) che non era stata la Repubblica d’Irlanda a renderli ansiosi e a non farli partire verso sud. Era il confine in sé. O piuttosto l’impressione che se ne erano fatti guardando il telegiornale: checkpoint armati, bande di contrabbandieri, terrorismo. La frontiera appariva un posto pericoloso, meglio evitarla.

Adesso quei pericoli non esistono più. Nel 1993 le due Irlande hanno aderito al Mercato unico europeo e i controlli doganali sono stati eliminati. Poi l’accordo di pace del 1998 ha portato allo smantellamento di tutte le installazioni militari alla frontiera. Oggi passiamo il confine in macchina senza problemi. Non ci accorgiamo nemmeno di varcarlo. E ci sono anche molti più modi per farlo, perché decine di strade sono state riaperte.

Di recente sono tornato a quella frontiera e l’ho percorsa a piedi, da un capo all’altro. Ho scoperto un paesaggio particolare, diverso; una campagna lunga e stretta con un carattere tutto suo. Sotto l’aspetto fisico, l’Irish border è quasi completamente rurale: fattorie, foreste e paludi. La gente che vive lungo il confine è diversa, indipendente e pragmatica, è un modo d’essere plasmato dalla vita di frontiera. Specialmente quella irlandese, con la sua storia di violenza e di difficoltà economiche. Come in tanti luoghi rurali, la vita qui ha un ritmo lento. Chi abita sul confine non va di fretta.

Ho deciso che passeggiare era il modo giusto per guardare la frontiera. Anch’io non volevo avere fretta. Camminare era per me una forma di ricerca, disegnavo carte geografiche e stavo scrivendo un libro. Non mi aspettavo che il border mi sarebbe piaciuto da un punto di vista turistico, eppure è andata proprio così. La pace sul confine ha reso accessibili molte zone piene di fascino. Ci sono laghi e corsi d’acqua sottovalutati, come il fiume Foyle e il lago di Lough Melvin. Anche il Cavan Burren Park è speciale. Qui, migliaia di anni fa, i primi abitanti dell’Irlanda hanno usato lastre e massi di pietra per costruire tombe e muri. È uno dei siti archeologici più notevoli di tutto il Paese, e si trova a cavallo della frontiera. Solo in questi ultimi anni la gente ha cominciato a visitarlo. Un altro percorso meraviglioso è quello del Cuilcagh Mountain, una parete di roccia lunga tre miglia con il confine che corre sul crinale.

Mentre camminavo ho sentito che i due lati del confine cominciavano di nuovo a conoscersi e riconoscersi. «La mia era una strada senza uscita», mi ha detto una donna sulle rive del Blackwater, il fiume che segna il border, «ma da quando hanno costruito il nuovo ponte posso andare in entrambe le direzioni». Da fuori può sembrare una libertà piccola, ma per lei e per i vicini è tanto.

Un grande merito della pace sul confine è che ha permesso di voltare pagina e parlare d’altro. Qui c’è chi preferisce un’Irlanda unita, Nord e Sud insieme in un’unica nazione. Altri sono contenti di far parte del Regno Unito, con l’Inghilterra, la Scozia e il Galles. Grazie alla pace le persone si sono concentrate sulle cose su cui potevano essere d’accordo, come l’importanza di avere un confine aperto. «Il confine non esiste più», ho sentito dire spesso da quelle parti. Non è del tutto vero, sulla mappa si vede chiaramente. Ma non è neppure del tutto falso. Il confine non rappresenta più il conflitto emotivo che era in passato. Ma è un equilibrio delicato. Ogni controllo alla frontiera sarà un grave colpo.

Adesso è arrivato il momento dell’uscita. La maggioranza dei nordirlandesi ha votato per rimanere in Europa. Ma il Regno Unito nel suo insieme ha deciso invece di abbandonarla. Presto questo paesaggio potrebbe marcare la linea di separazione tra chi è nel mercato unico e chi è fuori. Tutti sperano che la Brexit non porterà di nuovo truppe lungo la frontiera, ma gli uffici doganali potrebbero invece riportarla a essere un luogo dove si è esaminati e, forse, dove si fa autoanalisi, dove ciascuno esamina se stesso. Se accadesse anche solo questo, sarebbe un duro colpo. Intanto al confine si vive con ansia. A pochi giorni dall’inizio del 2019, un furgoncino per la consegna delle pizze è stato fatto esplodere di fronte al tribunale di Londonderry. Non ci sono state vittime, ma la polizia sospetta la Nuova Ira, organizzazione politica nata nel 2012. Forse si è trattato di una risposta a questi tempi di incertezza. Sembra dirci che il nostro potrebbe tornare un confine difficile, un hard border.

Di recente oltre cento persone che vivono lungo la frontiera si sono radunate a Belfast per un meeting e, con il mio aiuto, hanno scritto un documento: un elenco di ciò che li preoccupa. Si chiama The Yellow Manifesto. Un commento forte all’iniziativa è stato: «Possiamo insegnare al mondo la Storia, il rispetto e il perdono, ma ci serve più tempo per venire a patti con il nostro passato».

Scrittore e docente alla Queen’s University di Belfast, Garrett Carr è autore di The Rule of the Land: Walking Ireland’s Border (Faber & Faber, 2017). Per Bbc, The Guardian e altri media tratta di luoghi, storia e memoria. Cartografo per passione, cura la mostra Mapping Alternative Ulster, con mappe vecchie e nuove dell’Irlanda del Nord (Ulster Museum di Belfast, fino al 22 giugno).