Marchigiano, denso nello sguardo e nella conversazione, Roberto Minervini vive in America per amore. La guarda con salvifico distacco ma, nel filmarla, ci si butta dentro senza rete, e ne esplora gli angoli, le zone cieche. In film come Louisiana ne ha raccontato l'umanità ai margini come fossero i confini stessi del mondo.

Clothing, Suit, Standing, Fashion, Blazer, Formal wear, Outerwear, Human, Footwear, Fashion model, pinterest
Courtesy
Roberto Minervini

Il suo documentario, Che fare quando il mondo è in fiamme?, nel 2018 accolto con entusiasmo e partecipazione al Festival di Venezia e dall'8 giugno sulla piattaforma Miocinema (presentato alle 21 dallo stesso regista), accompagna e mostra i volti di una comunità nera a Baton Rouge, nel profondo Sud. Grazie a tre straordinari ritratti di donne riesce a trapiantare dentro lo spettatore il cuore ferito, i segreti inaccessibili, ma anche il senso di dignità e riscatto che accompagnano la questione razziale, che sta divampando ora, ancora, con furia cieca.

Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervinipinterest
Courtesy Photo
Krystal una delle protagoniste del docu-film Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervini

Perché ha scelto personaggi femminili?
Sapevo che in questa storia le donne sarebbero emerse naturalmente, perché sono alla base della struttura familiare afroamericana: gli uomini per lo più sono in prigione. Che siano venute fuori proprio Judy, Ashley e Krystal è, come sempre quando inizio a girare, una questione autogenetica, sono state le figure stesse ad essermi venute incontro, hanno scelto loro me.

Cos’hanno in comune queste tre donne?
Si battono per mantenere a galla un contesto,una comunità, un’istituzione: Ashley la sua stessa famiglia, Judy, con il suo bar, la comunità locale, Krystal, capo delle Black Panther, un partito e un’istanza razziale.

Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervinipinterest
Courtesy Photo
Judy una delle protagoniste del docu-film Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervini

A un certo punto Judy dice che tutte le madri afroamericane trasmettono ai figli, già da quando sono in grembo, la paura. Ma non è una cosa terribile?
La paura è linfa vitale per i bambini e i ragazzini: senza, non saranno in grado di affrontare una società ostile nei loro confronti. L'accettazione della paura è l'unico modo per arrivare a superarla. Credo che questo sia l'aspetto più spirituale del film. Il piccolo Titus viene svezzato dal ragazzino più grande, Ronaldo, che sente che il bambino non ha ancora paura a sufficienza, non l'ha ancora provata e metabolizzata facendola passare dal livello razionale a quello primordiale, emotivo, e allora cerca con lui situazioni controllate ma che lo espongano alla paura. Ho due figli di otto e sei anni, e penso al privilegio dell'uomo bianco che spessissimo non ha la necessità di insegnare ai figli la paura, di contribuire a privarli il prima possibile dell'innocenza per conservarli vivi.

E invece cosa l'ha colpita di ciascuna di queste donne?
Crystal vive la sua vita con integrità morale massima. C'è qualcosa di nostalgico ed eroico nella gente semplice che conduce un'esistenza assolutamente corretta, in cui la parola trova riscontro nei fatti. Judy d'altro canto rappresenta un attaccamento viscerale alle sue radici, a sua madre, ed è dotata di una generosità che trascende ogni cosa.
Ashley ha un modo di essere madre esemplare, amorevole senza compiacimento,capace di sacrificio intelligente.
In generale tutta la gente nera che ho incontrato ha una fisicità forgiata per renderla pronta a farsi scudo per i propri cari.

Che cambiamenti ha visto col passaggio dall'amministrazione Obama a quella Trump?
Ho iniziato a girare a ottobre 2016 e ho chiuso ad agosto 2017. Trump ha vinto le elezioni nel mezzo e certo le cose sono peggiorate, il razzismo si è esacerbato con un presidente suprematista bianco il cui padre era un Ku Klux Klan, e non si tratta di un segreto. Ora l'istigazione alla violenza è costante. Ma la comunità nera non perdona a Obama di non averla rappresentata. Si aspettava che intervenisse nell'istruzione pubblica, riformandola visto che nei quartieri più degradati è allo sfascio. E non è intervenuto nemmeno nel sistema giudiziario, nella depenalizzazione di alcuni crimini che portano i neri in carcere: le prigioni erano superaffollate di black people quando c'era Obama.


Perché ha scelto il bianco e nero?
Volevo creare una continuità con l'iconografia del passato, quella delle lotte per i diritti civili negli anni 50 e 60. Il bianco e nero rappresenta la memoria storica,l'eredità. E'un elemento visivo che si propone di non dimenticare. E poi col bianco e nero tutte le sfumature della pelle svaniscono in favore di un non colore che appartiene a tutti, e in cui quindi tutti coloro che ho filmato si sono identificati.

La difficoltà più grande nel girare il docu?
Mi sono messo al servizio della gente che stavo riprendendo. Quando è stato necessario ho spento la macchina da presa. Ho voluto coinvolgere tutti nelle decisioni del film. Ma comunque alla fine ho constatato con dolore che al momento è impossibile che un nero d’America possa fidarsi totalmente di un bianco. Né un bianco può pretenderlo. La ferita è troppo aperta per farcela sul serio, o aspettarsi una vera convivenza amorevole.

Perché si dovrebbe andare a vedere questo film?
Ho cercato di farmi da parte più che potevo e di creare le condizioni per non essere un portavoce, ma una piattaforma da cui la gente potesse parlare. C'è molto da ascoltare quindi, una pratica che ha qualcosa di politicamente rilevante e spiritualmente profondo.

Com'è crescere due figli in America?
Luca e Giada sono di razza mista, bianca e asiatica. L'asiatico negli Usa, specie il maschio, è un cittadino di seconda categoria, il più ripudiato insieme alla donna nera. Non rientrano nei canoni di bellezza e superiorità fisica portati avanti dal bianco. C'è invece una forte sessualizzazione della donna asiatica, come del'uomo black. Non lo dico io, ma la sociologia. Il mio impegno di padre è quello di lottare anche contro il razzismo più velato mettendo anche me stesso continuamente in discussione. Il suprematismo non è solo l'annientamento della razza opposta, ma anche l'accettazione passiva di una situazione di superiorità numerica. Un liberal di ampie vedute non accetterebbe mai di mettere il figlio in una scuola 100% bianca, ma neanche in una in cui il bianco è in minoranza. Per sentirsi bene, serve quello che chiamiamo token, il gettone di presenza black: una quota nera necessaria, ma senza esagerare.