INCONTRO LO STRATEGA DELLA MODA «ABBIAMO BISOGNO DI VISIONI. E DI NUOVE REALTÀ». Dal 2015 Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, Carlo Capasa non ha solo un curriculum da imprenditore di forte e robusta costituzione: ha la capacità non comune di coinvolgere i suoi interlocutori, argomentando con dovizia di dati il perché e il percome nel made in Italy vanno prese decisioni, stabilite priorità, definite istanze. Ma l’eloquenza non è nulla senza l’assertività e il coraggio. E anche di questi, Capasa ne ha stivati abbondanti quantità. Quelle che servono per interagire con il fashion world globale e con quello nazionale, che rappresenta in prima persona. Non ci sono sfilate, a Milano, dove non sia in prima fila: anche quelle dei designer giovani, «che dobbiamo tutelare e promuovere in tutti i modi: dal loro inserimento nella fashion week al supporto economico». Nel corso della sua esperienza, ha sviluppato una carriera importante ricoprendo vari ruoli chiave in aziende del settore. La sua politica si sostanzia su tre concetti-chiave: nuovi brand, sostenibilità, digitalizzazione e nuovi brand. Ci incontriamo a Milano, nella sede della Camera, in Galleria Vittorio Emanuele, di fronte al Duomo. Più italiano, anzi milanese di così, non si può.

#LIKES È vero che la moda italiana, oltre a essere la più venduta, è anche la più ecologica?

CARLO CAPASA I colleghi presidenti delle altre associazioni delle altre fashion week più importanti del mondo - New York, Londra e Parigi - ci hanno eletto capofila della sostenibilità. È un argomento di cui dobbiamo parlare assolutamente. Perché risiede nel nostro dna, nel nostro saper vivere, nel nostro amore innato per l’armonia. Il nostro è ancora il Bel Paese, ricco di luoghi meravigliosi ricchi di arte e di cultura: e questo si integra al rispetto di ciò che ci circonda. In più c’è un dato pazzesco, se lei pensa: noi siamo anche la nazione di industrie disseminate per tutto il territorio, con tanti distretti produttivi. E tutti questi distretti sono aree dove si realizzano prodotti d’eccellenza: là le scarpe, lì i tacchi, in una zona le sete, in un’altra il cashmere. Ci sono aziende, piccole o medie, molto spesso a conduzione familiare. I titolari spesso ci vivono accanto, quindi sono coinvolti direttamente nella salvaguardia dell’ambiente. Il problema è che non lo abbiamo mai raccontato bene.

#LIKES Siamo anche l’unico paese ad avere la famosa “filiera” produttiva, che ci permette di arrivare dal disegno al prodotto finito senza importare nulla...

C. C. Esatto. Siamo gli unici. Non solo: consideri i dati lordi della produzione. Gli ultimi dati Istat sono del 2014. Rappresentiamo oltre il 41% della produzione mondiale di tessile, abbigliamento e accessori. Ci segue la Germania, con l’11%, poi la Spagna con il 10%, la Francia con l’8%, l’Inghilterra con il 7% Non c’è nessun settore nel quale noi abbiamo un vantaggio di trenta punti sul secondo. Siamo davvero gli alfieri del bello. Solo i cinesi fanno più di noi, ma con prodotti di bassa qualità.

#LIKES E poi, cosa succede?

C. C. Che si deve passare all’azione. Sì, siamo creativi, fantasiosi, ma anche pragmatici. Abbiamo realizzato i monumenti, i dipinti e le chiese più belli del pianeta. Li abbiamo fatti. Nella moda succede lo stesso. Trasformiamo un’idea in un abito o un accessorio fruibile. Questo spirito ci ha spinto a dire: «Ok, affrontiamo il tema della difesa ambientale». E ci siamo riuniti con i più importanti brand - Gucci, Armani, Versace, Ferragamo, Trussardi e altri - per stilare delle linee guida sulla sostenibilità. Il risultato è un documento pubblicato a febbraio 2016, dove le aziende di moda italiane si impegnano, entro il 2020, a controllare ogni singolo step della loro catena produttiva, dall’impatto zero alla tutela dei lavoratori, dall’eliminazione delle sostanze tossiche alla tracciabilità di ogni singolo fornitore.

#LIKES Non è un discorso anche culturale, quello che si dovrebbe diffondere? Ovvero: comprare meno ma meglio?

C. C. Assolutamente. E forse, in questi ultimi anni, abbiamo tutti prodotto troppo. A me, ora, interessa far arrivare forte e chiaro il messaggio che in Italia l’etica va d’accordo con l’estetica. Del resto, abbiamo già in casa un modello a cui ispirarci.

#LIKES Qual è?

C. C. Pensi a quello che è successo con il food. Il consumo di cibo biologico che c’è in Italia credo non ci sia in nessuna parte del mondo. Perché? Perché c’è una cultura pronta a capire il valore di un certo prodotto.

#LIKES Però, se mi permette, abbiamo anche la fama di essere individualisti e di essere più bravi nell’abbigliamento che nelle idee shock...

C. C. Quando parliamo di benfatto, non dobbiamo pensare a un qualcosa che è lì, fermo. Timeless è una cosa, immutabile è un’altra. Sì, aspiriamo a creare cose senza tempo, ma che devono essere sempre moderne, perché comunque guardate con l’occhio dell’attualità. Questa è la grande capacità dell’imprenditore italiano, che spesso magari si è fatto da solo: è vero, siamo stati poco bravi a fare sistema, però singolarmente siamo eccezionali… Ma anche qui colgo un aspetto positivo: l’unicità di una visione implica che si deve usare tutto il proprio sapere, il proprio gusto, la propria capacità. Ha ragione: anche le cose più creative le abbiamo sempre un po’ piegate all’idea che prima o poi qualcuno se le dovesse mettere. Perché noi abbiamo sempre lavorato sul progetto, quindi per noi idea e prodotto coincidono.

Interior design, Ceiling, Amber, Hall, Light fixture, Lobby, Electricity, Decoration, Ceiling fixture, pinterest

#LIKES Idea e prodotto: sia sincero, il capitalismo può essere etico?

C. C. Senza etica, il capitalismo è solo deteriore. Si trasforma nella legge della giungla. L’etica è basilare nel sistema capitalistico. In un sistema come quello italiano lo è sempre stata, perché ha bilanciato l’aspetto economico con il valore dell’avere fatto il proprio dovere. Mio padre diceva: «Prima il dovere poi il piacere». Questa è la nostra categoria educativa, che ha permesso alle aziende di proliferare. Pensi alla Brianza, per esempio, dove il padrone era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. Milano è una città che detesta l’ostentazione: apri un portone e vedi un giardino stupendo.

#LIKES Trova che in Italia una certa sensibilità verso il bello sia accompagnata dalla sensibilità verso il buono? Io avrei i miei dubbi...

C. C. Sbaglia. Vengo da Lecce, una piccola città dove, quand’ero ragazzino, mi ricordo che le donne erano tutte vestite bene, al bar erano tutti in tiro, al ristorante si andava eleganti. La chiami “parte positiva del cattolicesimo”, ma abbiamo in noi, connaturata, l’indistinzione tra bello e buono.

#LIKES Be’ mi sta parlando di valori davvero timeless, quelli della Magna Grecia...

C. C. Il culto della bellezza al di là del tempo in realtà è un’attitudine. Che si è sempre sposata con l’innovazione. Siamo sempre stati degli innovatori. In tutti i campi, dall’architettura alla scienza, dalla tecnologia all’industria automobilistica. Certo: in Francia sono sempre stati più attenti all’immagine, e hanno sempre messo al centro il brand più che il prodotto. Noi, invece abbiamo messo al centro il prodotto. Ora, dare alla parola “prodotto” un’accezione o negativa dipende un po’ dal periodo storico e da chi giudica. Perché secondo me, il fatto che in Italia siamo riusciti a fare prodotti molto, molto alti - tant’è vero che anche i francesi quando li vogliono fare devono venire da noi - è un punto a nostro favore.

#LIKES Quanto conta la comunicazione, anche quando il prodotto è fondamentale? Non è imprescindibile avere anche un’immagine “forte”, visionaria?

C. C. Comunicare è fondamentale. Ma lo è ancora di più trasmettere un punto di vista. È chiaro che se comunico che tutto ciò che è commerciale o vendibile è sinonimo di banalità, ovviamente do a questo input un’accezione negativa. Se sostengo che la creatività è degna di un museo, improvvisamente il pezzo “visionario” diventa l’unico che eleva culturalmente il designer. Poi magari non lo mette nessuno, ma compreranno i suoi profumi.

#LIKES Quindi?

C. C. La mia domanda è: oggi, è più moderno questo approccio, o un approccio più museale, che tutto sommato allontana, diventa un po’ di maniera? Oggi io sono un po’ spaventato dal manierismo, tant’è vero che oggi la moda non va nella direzione manierista, ma va al contrario, in una direzione più streetstyle. E allora: non è forse più contemporaneo una disposizione mentale, come quella dei designer italiani, che immaginano un’occasione d’uso, piuttosto che quella di chi sostiene di fare abiti legati a una situazione?

#LIKES Non le so rispondere...

C. C. Non dico che una cosa sia giusta o sbagliata. Semplicemente non mi sento di affermare che la moda più astratta è migliore di quella più concreta.

#LIKES Visto che parliamo di timeless, cosa ne pensa del “See Now Buy Now”, che ne è sostanzialmente la negazione?

C. C. Credo sia stato fatto per un effetto di grande richiamo mediatico. Alla fine serve più alla pubblicità che al business. Molti di quelli che lo hanno messo in cantiere, alla fine - quando vai a guardare i numeri - hanno realizzato ben poco. È solo una minima parte del loro fatturato. Oggi il vero business si fa con le interseason, ovvero almeno tre presentazioni a stagione: di queste, l’ultima sarà più d’immagine e meno di vendita. Per il resto, non sottovalutiamo il fattore tempo: pensi a Gucci e al suo enorme successo sotto la direzione artistica di Alessandro Michele. Al suo debutto stampa e buyer erano rimasti interdetti, perplessi, indecisi. Dopo qualche mese il pubblico ha maturato il prodotto, lo ha capito, lo ha sposato. La creatività vera ha bisogno di essere digerita.