«L’immaginazione è la memoria dilatata e composta».

Appuntamento: il Crosby Street Hotel a new York, in occasione del lancio del profumo Gucci Bloom. Durante il viaggio sono ossessionato dalla celebre frase di Giambattista Vico e da una domanda, anzi la domanda che tutti i giornalisti vorrebbero fargli, ma nessuno ha avuto tempo o voglia di rivolgergli. Nel frattempo, ripasso mentalmente la sua vicenda professionale, che oscilla tra il mitologico e il fiabesco.

Breve riassunto per chi fosse rimasto isolato dal mondo negli ultimi tre anni: a gennaio del 2015, durante le sfilate maschili milanesi, debutta da direttore creativo di Gucci – a quei tempi marchio tormentato da risultati non felici in termini economici e creativi – un nome sconosciuto: Alessandro Michele. «Chi?!», si domandano le star del firmamento dell’informazione globale, con notazioni ironiche su quale sia il nome e quale il cognome. Ci si passano informazioni sul suo curriculum: romano, nato nel ’72, studi all’Accademia di costume e moda, esordisce da Fendi nei tardi anni novanta come Senior designer per gli accessori. Nel 2002 entra nel design office di Gucci a Londra, «passando dal caos fantasioso di Karl a quello preciso di Tom». Un talento in ascesa, sempre rimanendo, però, «felicemente dietro le quinte: stavo benissimo così».

E infatti: nel 2006 diventa Leather Goods director, nel 2011 associate creative director, nel 2014 direttore artistico di Richard Ginori, già acquisito dal marchio fiorentino. Poi accade l’impensabile: congedati i vertici del brand, il nuovo ceo Marco Bizzarri – “creatore di un creatore”, lo chiama Le Figaro – dopo ore passate a parlare con lui, lo nomina direttore creativo di tutto. A cinque giorni dal défilé. Cinque giorni che bastano a cambiare per sempre la filosofia aziendale: allo chic anodino e levigato di chi l’aveva preceduto, Michele oppone una visione personale, chiara, lucida. E colta. E nuova. Che, piaccia o meno, pone di nuovo la moda al centro dei temi culturali sulla contemporaneità: appassionato di vintage e nello stesso tempo profondamente connesso a una società cangiante e multiforme, adorato in maniera incontrastata dal target che fa più gola al mondo del lusso, i millennials, Michele è autore di un’estetica che ha per oggetto i percorsi lungo i quali sensibilità e modi di essere s’inabissano, scompaiono e poi ritornano, si trasformano per cambiare il loro uso, il loro valore, il loro stesso statuto antropologico. Il resto è storia e anche economia: in meno di tre anni il marchio fattura oltre il 40 per cento in più rispetto a prima, lui vince il premio come International Designer of the Year e quest’anno Time lo ha incluso – unico italiano – tra i “100 most influential People” della terra.

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Consapevole di vivere al «tempo delle ritornanze» (l’oggi, secondo l’epistemologa Eleonora Fiorani), mette in campo non soltanto la compresenza di passato–presente–futuro, ma i diversi meccanismi emotivi che convivono, s’intrecciano e si oppongono in uno spazio collettivo e individuale: quello del desiderio. E su tutto questo, predomina un autobiografismo che lo collega ai consumatori: alle dita ha gli stessi anelli pesanti che mette ai suoi modelli, ai piedi le “sue” sneakers decorate, sulle spalle un giubbino in denim ricamato. È il primo, con l’aiuto del compagno Giovanni “Vanni” Attili, docente di urbanistica all’università la Sapienza di Roma – i suoi lavori li trovate all’indirizzo mongrel–stories.com –, a introdurre citazioni di filosofi, pensatori e sociologi (Deleuze, Guattari, Barthes, Bakunin...) nelle note per la stampa. Michele non disdegna le citazioni pop (Paperino, Mickey Mouse, Snoopy, Woodstock...) accostati agli dèi di ieri e di sempre tra il monte Olimpo e Hollywood, a tributare omaggi alle subculture afropolitane di New York e ai versi di Lorenzo il Magnifico, a combinare il ’700 ai drappeggi statuari, a unire slogan da muri cittadini al romanzo del XVIII secolo di Fanny de Beauharnais L’aveugle par amour, “accecato dall’amore”, slogan gucciano per eccellenza, diffuso su capi e accessori in forma di ricamo, stampa, applicazione. Quell’amore che nutre per la bellezza inattesa, strana, che può scaturire dal mettere insieme elementi provenienti da pianeti distanti. Lui è accecato dall’amore per la bellezza, parola che pronuncia molto spesso. Per lui non significa solo magnificenza difforme o rapidità di mutamento. È più che colore od opulenza, qualità dei materiali o semplice elaborazione del decoro. Per Alessandro Michele la bellezza rimane l’espressione più incisiva del piacere che prova nei confronti della ricchezza e della multiformità delle cose.

Voce pacata, apparentemente molto timido e riservato, arriva puntuale all’appuntamento, il volto inquadrato tra il sipario di capelli lunghi e corvini come la barba e la visiera del cap da baseball. Emana calma. È il momento giusto per anticipare che ho la domanda da fargli. Ma la chiacchierata inizia dal motivo per cui siamo qui: la nuova fragranza.

#LIKES Creare un profumo è un’esperienza diversa rispetto al creare moda?ALESSANDRO MICHELE. Più o meno va nella stessa maniera. Amo molto i profumi come veicolo di memoria così come amo connettere elementi che sembrano lontani tra loro. Il processo è stato abbastanza semplice perché avevo già lavorato con Alberto Morillas (il naso “dietro” Gucci Bloom) e siamo partiti dal fatto che mi piacciono moltissimo i fiori. Gli ho raccontato una storia: io lavoro immaginando storie, sceneggiature, trame di cui disegno i “costumi”, per così dire. Stavolta ne ho anche prefigurato gli odori: in mente avevo la visita a una vecchia zia di una ragazza che entra nel suo giardino e ne annusa l’aria mischiata a quella dell’orto. Quindi è una fragranza rétro, ma dalle note verdi, erbose, vegetali. Una creazione che, in effetti, somiglia a un mio abito: totalmente contemporanea anche se nasce da suggestioni passate. E poi trovo coraggiosi i fiori che ci ricordano la loro esistenza anche nelle città più grigie e inquinate. Passi davanti a un’aiuola in mezzo ai palazzi e sei investito da una nuvola odorosa che ricorda come la natura sia più forte di tutto...

#LIKES La invito a un gioco: scelga tra“profumo di successo”, “profumo di un’epoca”, “profumo dell’innocenza”. Quale sceglie?
A. M. Fatico con tutti e tre, per me il profumo è la memoria: se mi costringesse a scegliere, direi “innocenza”. Quando annusi un profumo ti colpisce al cuore, ti rende indifeso, non puoi vederlo né controllarlo. Si è soggiogati dagli odori come dai ricordi, non si può fuggire dal loro portato evocativo.

#LIKES Di cosa sa Roma?
A. M. Ha un odore avvolgente, però talvolta narcotico, che immobilizza e rischia di intrappolarti come le sabbie mobili. Però per me è anche odore di casa, del sugo della mamma di domenica mattina. Tutti i posti hanno un loro odore e noi cerchiamo di reprimerlo.

#LIKES Nella sua moda c’è molto di quello che legge, che ammira, che ama... Come fa a conciliare questa dimensione così intima con l’esigenza di vendere un prodotto al maggior numero di persone possibile?
A. M. Lavoro in preda a un senso di precarietà, posseduto dall’idea che lavorare significa fare qualcosa che mi piace e corrisponda a quel che desidero. Perché dovrebbe essere diverso con un profumo? Le mie scelte sono molto personali. Secondo me bisogna per forza, se fai questo mestiere, metterci qualcosa di proprio, perché la narrazione non può essere di qualcun altro. Non sono un attore che legge un copione. Non sono un progettista, non so pensare abiti, oggetti, profumi e accessori che non siano nelle mie corde. L’importante è non perdere la dimensione della leggerezza e anche quella di un certo senso ludico. Come dico sempre, la mia non è una professione che ha bisogno di un cantiere: non dobbiamo costruire un palazzo o un padiglione. Si procede a un ritmo molto veloce e, se possibile, divertente.

#LIKES Come giudica la velocità, appunto, a cui siete sottoposti voi direttori creativi?
A. M. Mah, il mio racconto si svolge lungo un flusso di pensieri così fluido che a me, in realtà, i tempi della moda sembrano lentissimi. Non ritengo che la narrazione contemporanea sia così isterica come dicono: io creo continuamente con il mio piccolo gruppo di lavoro e c’è qualcuno sopra di me che divide ciò che faccio in main collection, pre-collection, e così via... Ma mi trovo in un campo d’azione diverso, che segue uno svolgimento tutto mio.

(to be continued...)

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