Una dichiarazione ufficiale, più di un manifesto: con Kingsman - Secret Service, film che Jason Ward del Guardian definisce «solidamente conservatore», il patto commerciale tra cinema e moda viene dichiarato più che apertamente.

In quella che si potrebbe definire una spy comedy d’azione, diretta da Matthew Vaughn, il guardaroba ricopre un ruolo sostanziale nella costruzione dei personaggi interpretati da Colin Firth, Michael Caine, Mark Strong e Samuel L. Jackson. È stato disegnato e curato da Arianne Phillips - costumista tra gli altri di A Single Man, Edward e Wallis e Quando l’amore brucia l’anima, nonché stylist di Madonna. MrPorter.com, il sito di moda maschile creato da net-a-porter.com, offre online - e su misura - gli abiti, i pantaloni, le giacche, le camicie e gli accessori della linea Kingsman.

In questi termini la collezione, concepita in contemporanea con la produzione del film, rappresenta un vero inedito. Un’intuizione e una fisiologica conseguenza. Non è che l’ultimo capitolo di una lunga alleanza tra cinema e moda, che ha assunto nel tempo molte forme efficaci. E qui prendiamo in prestito le parole di Roland Barthes, che, citando in Mythologies il sodalizio tra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy, lo definisce «uno scambio di prestigio, di aura mitica». Ed è proprio questa la componente seduttiva forte che offre il cinema: dalla t-shirt bianca di James Dean in Gioventù bruciata o il giubbotto di pelle di Marlon Brando ne Il selvaggio, fino al tubino nero di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany o ad American Gigolo, che rappresentò la consacrazione internazionale per il giovane Giorgio Armani. Ancora, dallo stile all black di Keanu Reeves in Matrixfino al poco felice ritorno della pelliccia decretato da Gwyneth Paltrow ne I Tenenbaum di Wes Anderson, gli esempi sono tanti. Sicuramente storici e sociologi trovano, attraverso la moda nel cinema, un terreno sconfinato di indagine. Le donne cominciarono a indossare pantaloni quando videro Pearl White – diva del cinema muto – saltare da aerei e treni in movimento, in pantaloni e stivali. Più tardi, si diffuse ulteriormente la tendenza con le immagini di Marlene Dietrich, Greta Garbo e Katharine Hepburn, in pantaloni fuori dal set. Cinema e moda si influenzano reciprocamente da sempre. Ma all’inizio i grandi produttori improvvisavano. Era il direttore artistico a dare suggerimenti per il guardaroba delle attrici.

Una storia vera è spesso raccontata con pochi soldi: in La nascita di una nazione, il film di Griffith del 1915, Lillian Gish indossa un costume cucito da sua madre. Fu intorno agli anni 20 che nacque la figura del costumista. Una decina di anni dopo ogni studio rispettabile aveva il suo dipartimento costumi. Howard Greer fu il primo a dirigere una sezione per gli abiti di scena, alla Paramount, impiegando 200 sarti e cucitrici. Una tappa importante si raggiunse quando, negli anni 30, l’attrice Constance Bennett pretese che nei suoi film fosse citato il nome di Hattie Carnegie, quella che ora si definirebbe la sua stylist: fu così che nel cinema apparvero i primi crediti di moda. È però solo dal 1948 che esiste un Oscar per i costumi. Edith Head, fu premiata ben otto volte (tra le sue memorabili partecipazioni ricordiamo quelle a Notorius di Hitchcock e Viale del tramonto di Wilder).

Tra le figure di successo più recenti, l’italiana Milena Canonero, che di Oscar ne ha ricevuti quattro, con ben nove nomination: suoi gli abiti di scena di Arancia Meccanica e Barry Lyndon di Kubrick, Momenti di gloria, Cotton Club di Coppola e La mia Africa, fino ai più recenti Marie Antoinette di Sofia Coppola e Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Questo mestiere è cresciuto a Hollywood. Fu Travis Banton a creare lo stile maschile di Marlene Dietrich, e quando più tardi Dior, malgrado fosse già affermato e la sua bravura indiscussa, si ritrovò a vestire l’attrice in Paura in palcoscenico di Hitchcock e ne Il viaggio indimenticabile di Henry Koster, si trovò in imbarazzo. Temeva infatti il confronto con il lavoro del costumista. Indicativo anche il fallimento di Coco Chanel chiamata da Hollywood negli anni 30, e ci dà la misura di come si tratti di due competenze differenti. Lo stilista crea seguendo il suo istinto estetico, unico vincolo il corpo. Il costumista deve tener conto dei mezzi tecnici, di un linguaggio codificato che, essendo fatto solo di luci, ombre e suggestioni, va rispettato e interpretato.

Fu a partire dagli anni 60 che i metodi di lavoro cambiarono e si iniziarono ad acquistare i costumi direttamente dagli stilisti, che ora producevano moda prêt-à-porter. Anche Audrey Hepburn, che fino ad allora si era permessa solo alta moda, passò a quella pronta nel film di Stanley Donen Due per la strada del ’67, indossando Paco Rabanne, Mary Quant, Ken Scott, Michelle Rossier. Sempre più spesso, furono gli stilisti a determinare l’immagine sugli schermi, e l’influenza dei film sulla moda si limitò a suggerimenti di look stagionali. Ancora oggi, quella collina di Los Angeles ha un potere evocativo e simbolico. Vestire attori e attrici per la serata degli Oscar resta il traguardo di ogni stilista e designer. Giorgio Armani in questo è stato un precursore, già dalla fine degli anni 70.

Contribuire a un buon film vestendo degli attori famosi, per uno stilista rimane ancora la migliore pubblicità. È per questa ragione che è nato da tempo uno scambio codificato tra le case cinematografiche e i disegnatori di moda. L’intero guardaroba del cast, in cambio di pubblicità. È il “promo-costuming”. Le forme di alleanza sono sempre più frequenti e variegate, come dimostra l’operazione Prada The Iconoclasts. Per l’edizione 2015, la terza, tre importanti costume designer sono stati invitati ad arricchire con un loro intervento creativo i negozi Prada nel mondo. Con Michael Wilkinson - che ha lavorato in coppia con il designer Tim Martin - non potevano mancare proprio Arianne Phillips e Milena Canonero. Il rapporto tra cinema e moda si consolida. È certo però che l’estetica e le mutazioni del gusto seguono oggi percorsi sinuosi e articolati, che attraversano tutti i territori dello spettacolo, dal grande cinema fino alle soap opera. Producendo nuovi significati e una impressionante commistione di segni, creando ondate di tendenze pronte a sparire nel giro di pochi mesi, sostituite da quelle nuove, incalzanti e altrettanto frettolose. Perché il tempo della fascinazione, ormai è molto più breve. Ma quello che conta è la qualità delle intenzioni e l’intensità del momento.