Menti e straordinariamente creative, rapide nell’individuazione delle problematiche e nella proposizione di soluzioni e alternative: il sistema della moda è trainato da questo tipo di personalità. Ma anche il talento più visionario deve maturare e acquisire gli strumenti che gli permettano di affrontare le sfide di un sistema sempre più globalizzato e competitivo. Costruire il mix disciplinare ideale per mettere a punto un’offerta didattica efficace rispetto al sistema odierno della moda è un compito molto complesso. L’idea che il talento sia sufficiente, come è stato per alcuni autori in un passato ormai remoto, è un concetto superato. Frances Corner, Dean del London College of Fashion, la più antica istituzione accademica dedicata esclusivamente alla moda, scrive su BOF (The Business of Fashion, fondato da Imran Amed nel 2007 inizialmente come semplice blog, oggi è una delle piattaforme più influenti nell’informazione della moda): «Come educatori, usiamo la possibilità di contestare la definizione della moda tra le generazioni future e di mettere in discussione la natura stessa del settore, i suoi valori e la struttura. Gli studenti arrivano a capire che la moda è più che la semplice progettazione di abbigliamento e relativi prodotti. Così, li incoraggiamo a impegnarsi nelle altre aree di pari importanza: la comunicazione della moda, la scienza della moda, l’etica della moda e del business della moda. Il futuro dell’industria della moda ha bisogno di creativi, innovatori, pensatori dalla spiccata sensibilità visiva e queste sono abilità spesso ricercate in manager e dirigenti di alto livello in quasi tutti i settori, non solo nella moda. L’industria avrà sempre più bisogno di laureati con competenze che non sono mai state considerate prima, semplicemente per tenere il passo di un mercato globale crescente e sofisticato, che è sempre più digitale e tecnologicamente concentrato».

In ogni caso sono molto diverse (e molto spesso poco coordinate) le realtà, in Italia e all’estero, che formano i professionisti della moda: scuole tecniche, corsi di settore, accademie, università; un universo di possibilità in cui è difficile muoversi, soprattutto se si è giovani e indecisi. Numerosi siti internet propongono vere e proprie guide su come riuscire a entrare nel mondo della moda e avere successo. Come se l’industria della moda non fosse quel colosso complesso e imponente che traina una fetta importante dell’economia mondiale e che riesce a incidere profondamente su gusti e tendenze di noi.

Creatività, talento, ricerca innovazione costituiscono dunque i grandi temi a cui sono connessi i destini della società postindustriale. E il dispositivo capace di tenere insieme ma anche di rendere disciplina e motore produttivo queste sfide è la scuola. Ma ancora inesplorata rimane in Italia la questione della complessità e dell’urgenza della formazione dei creativi, in particolare nell’ambito moda. Incapaci di riconoscere a questo settore il suo incredibile valore, non c’è stato impegno istituzionale a costruire una scuola di moda pubblica che usando il brand “made in Italy” potesse diventare centro di eccellenza internazionalmente riconosciuto. Nel nostro paese la latitanza delle istituzioni è stata risolta con il consolidarsi di una serie di scuole private, situate tra Milano, Roma e Firenze, che negli ultimi anni hanno acquisito prestigio e autorevolezza (penso al Polimoda, allo IED, all’Istituto Marangoni, alla Domus Academy, all’Accademia di Costume e Moda). Non dobbiamo però dimenticare che nel mondo tutte le grandi scuole di moda – dalla Royal Academy of Fine Arts di Anversa al London College of Fashion di Londra (e più in generale il network University of the Arts London), allo Shenkar College of Engineering, Design and Art di Tel Aviv – sono pubbliche e fanno parte di un preciso progetto statale in cui le scuole dei creativi sono motori di qualità della vita per le città e i territori, oltre a essere volano di promozione delle identità e qualità di un paese. I problemi sono diversi: in Italia non c’è una tradizione di studi sulla moda come nei paesi anglosassoni, come non c’è quella tradizione che tiene insieme arti decorative e riflessione sul progetto vestimentario, in quel mix ad alto tasso di creatività e personalità che regna nelle scuole inglesi.

C’è da dire che fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in Italia, Rosa Genoni (1867-1954) – sarta e pioniera degli studi di moda, socialista e femminista, dal 1905 direttrice e insegnante presso la Società Umanitaria della sezione sartoria della scuola professionale femminile, dove insegnò anche Storia del costume – ribadiva la necessità di scuole di moda italiane, che non fossero copie di quelle francesi. Così scrive Genoni nel 1908 sulla rivista Vita d’arte a proposito delle rivendicazioni femminili della moda: «In tutte le Città d’Italia si istituiscono ora delle scuole femminili professionali, che avrebbero un ben meschino ideale se aspirassero soltanto a formare delle manuali esecutrici, delle macchine che copiano, e non delle intellettuali artefici e delle menti creatrici». Oggi, nel nostro paese esistono corsi di laurea dedicati alla moda, ma la moda non è riconosciuta come disciplina universitaria, nonostante sia uno degli ambiti centrali per l’economia e la cultura italiana. Così, ancora una volta, a più di un secolo dalle parole di Genoni, le debolezze a livello di visione politica e istituzionale si riflettono negativamente su sviluppo, ricerca e competitività.

La buona preparazione è un mix complesso impastato sia dalla conoscenza teorica che dall’esperienza pratica. Introdurre nel corpo docente professionisti del settore e mettere gli studenti a contatto, in maniera diretta, con le esperienze di designer che “ce l’hanno fatta” è necessario per integrare le conoscenze pratiche utili per inserirsi nel mercato del lavoro una volta finiti gli studi. Il percorso scolastico deve essere un mix equilibrato di pratica e teoria, cercando di equilibrare il divario tra quelle che sono sostanzialmente le due facce della stessa medaglia e che nella scuola devono procedere di pari passo. Se biblioteche e archivi eterogenei e in costante aggiornamento sono strumenti fondamentali per un’università eccellente, sono altrettanto fondamentali in questo senso i periodi di stage, che permettono agli studenti di rapportarsi con il mondo del lavoro ancora “protetti” dall’università.

È la consapevolezza del valore della moda (etichettare la moda come frivola è una imperdonabile frivolezza) e l’attenzione alla formazione dei creativi con il riconoscimento del suo valore di motore di sviluppo di un paese - che dovrebbero ricoprire un posto di primo piano nell’agenda politica - che possono generare un sistema della moda in grado di funzionare come sismografo, ma soprattutto come catalizzatore e traduttore di quegli impulsi che attraversano la contemporaneità.

Perché dare valore alla scuola vuol dire definire la propria identità, vuol dire dare una direzione ai progetti e alle attese di un paese.

Solo affrontando simultaneamente questioni interne al sistema della moda e questioni disciplinari, coinvolgendo una pluralità di voci con la consapevolezza che oggi è urgente non isolare la riflessione accademica dalle esigenze creative, progettuali e produttive della moda stessa, si potrà continuare a essere protagonisti di quel fashion system che la moda italiana ha contribuito in prima persona a definire.