Emozione e batticuore. Succede spesso dopo una sua sfilata e ancora di più se si intervista Alber Elbaz seduti in una delle aristocratiche sale di Palazzo Crespi a Milano. Lui, uno dei pochi stilisti ammessi nella lista di Time delle 100 persone più influenti al mondo, è l’uomo che ha portato in 9 anni e mezzo l’atelier di Jeanne Lanvin a un fatturato di oltre 200 milioni di euro (+20-30 per cento a stagione), con una fedeltà e affezione da parte delle clienti che scatena studi di settore, tanto è atipica. Dalle caviglie sottili ma dalle proporzioni rotonde, questo stilista nato in Marocco ma vissuto nei pressi di Tel Aviv, ispira simpatia quando ammira «le peonie che arrivano da Israele, il mio paese». Le annusa dicendo: «Non mi ricordo da quanto tempo non mi capitava di poter ascoltare persone, bere un caffè. E di ammirare poi questa splendida residenza milanese...».

Cos’altro la fa stare bene?
Stare assieme agli amici. Meglio se nel bar di un ospedale. Mi fa sentire protetto. Amo le infermiere, ho paura dei giornalisti e odio gli avvocati. Ma avrei voluto essere un dottore. O trasformarmi in un farmaco che guarisce tutto.

Le pastiglie (di stile) Lanvin però sembra che facciano un gran bene alle donne...
Lo spero, altrimenti per che cosa esisterei? La moda di oggi deve essere comoda e regalare sollievo.

Mi riferivo al mix di eleganza, sorpresa e femminilità che lei propone ogni stagione.
È strano, l’eleganza non la compri con la carta di credito come si fa con un vestito Lanvin. Sono i modi in cui ci si comporta. Io non impongo mai regole a una donna. La lascio libera perché so che la vita non è perfetta come certe leggi del buon gusto. Odio la perfezione, anche se faccio di tutto per raggiungerla. E pensare che sono dei Gemelli. Chi dice di una mia collezione «è perfetta!» mi spaventa.

Non apprezza i complimenti!?
Non dopo la sfilata. Partorire ogni sei mesi una nuova figlia non è facile. La moda ci costringe a essere maratoneti solitari dello stile con pre-collezioni, accessori, edizioni limitate, défilé... La sera dello show tutti vanno ai party. Io mi metto il pigiama, ordino una Pizza Hut, chiamo gli amici e vedo un film. Non ho bisogno di apprezzamenti ma di affetto.

Lei cita spesso sua madre...
Che non c’è più. Era una donna straordinaria, mio padre morì quando ero piccolo. Lei era forte e potente, eppure aveva parole d’amore per tutti. Ci ha cresciuto nel migliore dei modi. Diceva: «Sii grandioso nel mondo e semplice nella vita».

Torna mai a Tel Aviv?
Quando posso, sempre. Vado al supermarket, in spiaggia, niente interviste: sono me stesso.

A Parigi quando la fermano per strada, si intimidisce?
No, saluto, ringrazio e se vogliono una foto... Chiedo dieci euro. Per ogni scatto, naturalmente!

Lo humour l’ha aiutata nella sua carriera?
È uno strumento per rinascere quando sei triste, ma non credo di essere malinconico come un clown. Io voglio regalare gioia e colore. Pensi che ne dovevo portare anche ai soldati.

Scusi?
Nel mio paese ho passato tre anni all’Israeli Defence Force, dove ero andato anche con l’obiettivo di trovare ogni modo per distrarre i militari dalla loro dura vita. E infatti ho organizzato spettacoli ed eventi, per portare colore, appunto.

Lei però ama molto il nero...
Aiuta a vedere meglio le proporzioni. Yves Saint Laurent lo usava nelle prove per capire gli errori. Io lo alterno anche se i colori che poi vedo non sono mai quelli che ho veramente in testa. Specie allo schermo del computer. E mi spaventa, perché internet cambia la percezione di un colore e di un vestito.

Cosa pensa dei blogger?
Mi fanno paura: hanno un atteggiamento narcisistico che alla lunga snatura le persone.

Per trovare l’ispirazione cosa legge?
Leggo solo in ebraico perché è una lingua che conosco bene, mi permette di entrare nelle profondità mai rivelate di un testo.

Prega?
Tutte le persone creative sono in qualche modo credenti. Io devo dire grazie a un’entità che mi aiuta a rendere reali le mie visioni.

Nessuna paura della “pagina bianca”?
Ogni mattina. È questo che mi dà la molla per andare avanti.

Come si fa a lavorare con lei?
Si accettano i miei errori e ripensamenti perché le persone che mi stanno attorno devono permettermi di sperimentare.

Un buon team è importante?
Certo, quando ho accettato di lavorare per Lanvin non l’ho fatto perché non disegnavo più Yves Saint Laurent, ma perché mi permettevano di stare al lavoro con persone di cui ho fiducia.

E da Krizia come è andata?
Ci sono stato solo sei settimane. Per fortuna.

Un po’ di più invece da Geoffrey Beene...
Anni. E lui mi ha insegnato tutto. Anche se nel tempo io ho sviluppato una mia sensibilità, un gusto diverso.

Quale sarebbe?
Per me la moda deve essere come un pollo arrosto ben saporito, da gustare caldo. Non un dessert complicato. Intellettualizzare un vestito e chiedersi quale idea ci sia dietro mi sembra inutile.

Tutti però vogliono sapere la sua ricetta vincente...
Quello dell’intuizione è un momento surreale. Per arrivare al prodotto servono passaggi, persone e atmosfere.

Teme il tempo che passa?
Per niente. Ho 49 anni e mezzo. Sono felicemente sposato. Ho avuto molto dalla vita. Vorrei solo togliermi qualche chilo. Forse...