È da secoli che amiamo le perle, e le perle amano noi. Immaginate la percentuale di stile in più su cui poteva contare Audrey Hepburn grazie ai sui suoi sottili, leggendari nacklace bon ton. Immaginate quanti spasimanti in meno avrebbe avuto la Bella Otero senza giri e giri di perle intorno al collo, adagiati sul suo desideratissimo seno. Le perle ci accompagnano da così tanti secoli che le più vecchie del mondo, o meglio, quelle più antiche giunte fino a noi, erano in un sarcofago che oggi si può vedere esposto al Louvre, a Parigi e che ospitava le spoglie di una principessa persiana vissuta nel 420 d.C. Del corredo funebre della principessa faceva parte infatti una manciata di perle, sopravvissute nel tempo forse come parte di una collana, forse la sua preferita. La perla è stata per lungo tempo l’unica gioia perfetta perché nasce così, regalata già pronta dalla natura – forellino a parte - prima che si cominciasse a intagliare le pietre preziose. Infatti, le perle hanno una storia che va di pari passo con quella dell’umanità, e che coincide con l’abbassamento progressivo del loro prezzo, che le ha rese sempre più alla portata di quasi tutti. Ma come mai né l’oro, né i diamanti hanno avuto lo stesso destino?

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La chiave del mistero delle perle è tutta negli sforzi continui dell’essere umano per rendere più facilmente reperibile questa piccola meraviglia. Secondo il magazine del museo Smithsonian, sono iniziati nel 500 a.C. in Cina, dove possedere perle era un segno di prestigio e di potere. I primi a coltivarle sono i pescatori, che si erano accorti di come la perla si formasse solo quando un corpo estraneo rimaneva incastrato in una parte specifica dell’ostrica. I primi esperimenti li fecero con la Cristartia Plicata, un’ostrica d’acqua dolce, nella quale introducevano anche formine vuote a forma di Buddah, per ottenere perle dalla sagoma sacra. Queste perle erano leggerissime perché vuote, e alcuni esemplari si possono ancora vedere al Museo di Storia Naturale Americano. I tentativi, con risultati che sembravano le brutte copie di quelle vere, proseguono per secoli. Ma per una riproduzione delle perle che somigliasse di più alle originali bisognerà arrivare al 1686, col brevetto di Jacquin of France. La formula consisteva nello squagliare in ammoniaca le scaglie dell’alborella, un pesce di acqua dolce, e nel rivestire una perlina di vetro con la miscela ottenuta. Il risultato era già molto simile a quello vero e riscosse un grande successo. L'idea successiva consisteva nello squagliare le perle vere troppo piccole o scadenti e ricoprire col composto altre piccole perle fino a ottenere una misura regolare.

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Valentina Valdinoci//LAUNCHMETRICS SPOTLIGHT

La frontiera della coltivazione doc la raggiungeranno infine tre uomini giapponesi. Dapprima, il biologo Tokichi Nishikawa e il carpentiere Tatsuhei Mise si ritrovarono entrambi, alla fine del 1800, a cercare di brevettare la medesima scoperta, ossia l’inserimento di corpi estranei nelle ostriche per far sì che l’ostrica li isoli ricoprendoli di carbonato di calcio, strato dopo strato, fino a ottenere una sfera perfetta o, meno spesso, a goccia o altre forme irregolari. Alla fine, i due si misero d’accordo per condividere il brevetto e venderlo a un terzo giapponese, Kokichi Mikimoto, che lo sviluppò e migliorò, scoprendo addirittura che partendo dai frammenti madreperlacei delle ostriche americane si ottengono risultati finali migliori, ed estendendo la produzione all'acqua salata, attraverso il mollusco che dà il nome alle famose perle Akoya. Mikimoto riuscì anche a ottenere il riconoscimento del prodotto ottenuto come “perla”, che si è poi esteso in tutto il mondo. E da quel momento magico, intorno al 1916, ogni donna si è potuta permettere un filo di perle, persino di perle dell'Australia, preziosissime, o di perle di Tahiti, le stupende perle nere della Polinesia, senza bisogno di essere una regina. O di essere Audrey Hepburn.