Moda etica dal mondo? Cinque esempi che raccontano le storie di donne straordinarie, impegnate nel realizzare accessori sostenibili, dal Brasile al Mali, passando per la Giordania.

1. Non siamo mai sole. Si chiama #Neveralone la collezione di gioielli etici creata da Marella insieme all'imprenditrice sociale Caterina Occhio. Un passato in Commissione Europea, Caterina ha fondato il suo marchio di gioielleria SeeMe con lo slogan "not charity, just work": non beneficenza, è il lavoro che permette alle persone di ricostruirsi una vita (nel caso di SeeMe i gioielli sono creati in Tunisia da donne vittime di violenza o allontanate dalla propria famiglia).
«Con Marella lavoriamo da più stagioni e questa volta siamo andati in Mali, Africa occidentale», racconta Caterina, «Marella, come noi, ha la vocazione di rivolgersi a un pubblico di madri e figlie sempre più attente all'origine dei capi e dei gioielli che indossano. La visione e lo spirito di innovazione di Marella sono stati dei grandi compagni di viaggio che, ci auguriamo, ci porteranno verso un nuovo e migliore modo di vivere e pensare la moda». Quest'anno la collezione #Neveralone di SeeMe x Marella è prodotta a mano in Mali con il supporto dell'Ethical Fashion Initiative, programma legato alle Nazioni Unite e all'Organizzazione mondiale del commercio. Sono una serie di collane e bracciali placcati argento con cordini colorati e ciondoli con incisioni Tuareg (foto in alto).
Perché in Mali? «Siamo stati coinvolti da Simone Cipriani, capo dell'Ethical Fashion Initiative. È un paese dove, da una parte, c'è la competenza degli uomini Tuareg che tramandano da padre in figlio l’arte straordinaria del gioiello. Dall'altra ci sono le loro mogli, che hanno cucito i sacchetti con il tradizionale tessuto wax per contenere i gioielli #Neveralone», spiega Caterina, «nella loro struttura sociale, le donne hanno un ruolo molto importante. In caso di divorzio, per esempio, è l’uomo che deve lasciare la casa e, senza il loro consenso, nessuno può obbligarle a sposarsi».

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Courtesy Marella/Carlo Gilioli
La nuova collezione #Neveralone di Marella in collaborazione con SeeMe, marchio di gioielleria etica e sostenibile, è prodotta in Mali con il programma Ethical Fashion Initiative.
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Courtesy Kroché
La designer brasiliana Ligia Frick con la nonna Domingas di 103 anni, che l’ha ispirata a fondare Kroché, marchio di borse prodotte a uncinetto da signore della terza età.

2. In Brasile l'uncinetto parla d'amore. Quando la signora Domingas ha saputo che avrebbe probabilmente perso la vista, ha chiesto una sola cosa a sua nipote Ligia Frick: preparare dei centrini a uncinetto per tutte le figlie, nuore e nipoti. Così è scattato qualcosa per Ligia: «Da quando mia nonna ha smesso di lavorare, intorno ai 50 anni, non è più riuscita a rientrare e se ne è sempre lamentata. In Brasile le donne si prendono cura dei figli, dei genitori malati, dei nipotini, e abbandonano il lavoro. Queste attività lasciano loro del tempo libero, spesso in casa, che secondo me potevano rendere produttivo».
Da questa piccola illuminazione è nato Kroché, marchio di borse e sandali a uncinetto fatte a mano da signore della terza età, in primis Domingas, che oggi ha 103 anni.
«Non ero sicura di farcela», racconta sempre Ligia, «prima sono andata a un corso di uncinetto tenuto dall'artista Anne Galante per imparare la tecnica, poi mi sono iscritta a un college per studiare design e modellistica: volevo borse belle e sofisticate».
Grazie al passaparola ha messo insieme il primo gruppo di signore vicino a San Paolo, inclusa appunto sua nonna: «Io compro i materiali e li consegno, ognuna lavora a casa per conto proprio, ma una volta alla settimana ci incontriamo per stare insieme e chiacchierare». Le crocheteiras (le signore dell'uncinetto) sono diventate sempre di più e anche donne più giovani hanno iniziato a chiedere a Ligia di partecipare al progetto: così si tramanda la passione per quest'arte dell'intreccio.

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    Courtesy Sep Jordan
    Una donna al lavoro nel campo profughi di Jerash, in Giordania. Il marchio Sep Jordan vende sciarpe, scialli e accessori per la casa ricamati da donne rifugiate.

    3. L'arte del ricamo diventa impresa sociale. «Per vent'anni ho lavorato nella finanza, prima a Londra e poi a Ginevra, ma mi sono sempre interessata della questione dei rifugiati. Il ragionamento che ho fatto è stato semplice: in tutti questi anni la situazione non faceva che peggiorare, gli aiuti umanitari non erano una soluzione definitiva per queste persone. Volevo creare un'opportunità di lavoro seria e un modello di business potenzialmente replicabile», racconta così l'inizio dell'avventura Roberta Ventura, oggi fondatrice e Ceo di Sep Jordan, che produce accessori ricamati a mano da donne nel campo profughi di Jerash, in Giordania. Sciarpe, scialli, cuscini, kefiah, borse e una collezione per la casa: il loro catalogo si è ampliato nei cinque anni di vita del brand che oggi conta «520 ricamatrici formate con il nostro training di due mesi. La formazione ci permette di tenere sotto controllo la qualità del lavoro perché puntiamo al mercato del lusso. Per questo i materiali li spediamo quasi totalmente noi in Giordania, tranne le kefiah che sono prodotte in loco», prosegue Roberta.
    Oggi Sep Jordan ha una boutique a Ginevra ma vende online in tutti gli altri Paesi, Italia compresa. Roberta segue la parte creativa insieme al marito «non puntiamo alla stagionalità, ma a pezzi evergreen da indossare a lungo», spiega, «soprattutto siamo una vera impresa sociale, con l'obiettivo di alleviare la povertà all'interno del campo e di migliorare le condizioni di vita di chi ci abita». Tra le loro testimonial più fedeli si contano le modelle Bianca Balti ed Elisa Sednaoui. «Sono donne che ammiro perché si espongono sulla questione rifugiati e non è certo facile. Ma chiunque acquisti un oggetto Sep Jordan ha immediato rispetto per chi l'ha ricamato, perché capisce quanto sia curato e di qualità. E questa è la soddisfazione più grande».

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    Courtesy Sep Jordan
    Accessori ricamati Sep Jordan.
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    Courtesy Guri I Zi/Guido Caltabiano
    Il marchio Guri I Zi produce accessori a telaio in Albania: le donne di un villaggio hanno potuto costruirsi una vita grazie a questo lavoro.

    4. Al telaio per tessere una sorellanza duratura. Per le signore milanesi il negozio di Guri I Zi in via San Nicolao 10 è ormai una certezza. Esiste dal 2012, quando ha iniziato a vendere biancheria per la casa dal gusto impeccabile, tessuta a mano in Albania, e poi anche borse, borsoni, abbigliamento per bambini. Una predilezione per lino e cotone grezzo e per le immancabili righe: è il gusto di Alessandra Dentice di Frasso, il direttore creativo che cura questo marchio sociale nato dalla tenacia di Elena Galateri di Genola. Dopo un'esperienza di volontariato in un paese nel nord dell'Albania, Elena è tornata a Milano con l'idea di creare una micro impresa tessile per sostenere il lavoro delle donne della zona: lo strumento ideale era connettere le capacità a telaio di queste donne con qualcuno che curasse il design di una collezione adatta a essere venduta nelle migliori boutique.
    Con il tempo, gli utili dell'attività sono stati reinvestiti nel progetto, portando da 4 a 53 le donne che lavorano nel laboratorio in Albania e che hanno potuto così costruire un futuro per sé e le proprie famiglie. Quest'anno il laboratorio compie dieci anni ed è ormai un'impresa sociale a tutti gli effetti, ma le idee non smettono di sbocciare: da poco hanno lanciato una mini collezione di pezzi d'abbigliamento (tubino, gilet e kimono-blazer) in collaborazione con l’atelier Alberta Florence, progetto della designer Giulia Mondolfi che propone abiti confezionati a mano a Firenze.

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    Courtesy Guri I Zi
    Lino e cotone grezzo e le immancabili righe: è il gusto del direttore creativo di Guri I Zi, che cura tutte le collezioni nei minimi dettagli.
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    Courtesy Sarah's Bag
    Al centro, Sarah Beydoun, fondatrice del marchio Sarah’s Bag, che produce borse di lusso facendo lavorare donne in difficoltà in Libano.

    5. Borse di lusso per «donne di stile e di sostanza». Un brand di borse di culto, colorate e ricamate, scelte da Beyoncé, la regina Rania di Giordania, Susan Sarandon e l'avvocatessa Amal Clooney, che fa da certificato di garanzia per Sarah's Bag vista la sua esperienza in tema di diritti umani.
    Fondato a Beirut quasi vent'anni fa, Sarah's Bag è un vero modello di successo per tutti i brand sociali nati in seguito. L'impresa è di Sarah Beydoun, all'epoca neo laureata in sociologia che si è ritrovata a fare ricerca per la tesi a stretto contatto con donne in prigione o ex carcerate. La difficoltà di queste donne nel potersi ricostruire una vita, partendo da un lavoro, e spesso la loro mancanza di alfabetizzazione scolastica hanno spinto Sarah a inventarsi i primi corsi di formazione di cucito e uncinetto. In un viaggio lungo e pieno di sfide, Sarah è arrivata a creare collezioni di borse presenti nelle migliori boutique e prodotte ormai da un team di donne in tutto in Libano, in diverse situazioni di difficoltà, che il marchio provvede a formare.
    «Ho sempre avuto in mente un prodotto di lusso, adatto a un pubblico internazionale e attento alla moda», ha raccontato Sarah Beydoun in un'intervista, «e sono felice di vedere le nostre borse indossate da donne di stile e sostanza in tutto il mondo».

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    Getty Images
    La regina Rania di Giordania con una clutch Sarah’s Bag.