Ha appena 20 anni Lavinia Fuksas quando pensa di creare un brand di gioielli tutto suo. Eppure qualcosa la frena: non è ancora matura dal punto di vista professionale. Allora eccola intraprendere un percorso - la gavetta - in maison di moda, tra cui Azzedine Alaïa, dal quale impara valori come umiltà e grazia. Nel frattempo si laurea in economia alla Bocconi di Milano e studia textile design alla Central Saint Martins, in quel di Londra. Riceve dai suoi genitori Doriana e Massimilano Fuksas il sentimento più grande, quello dell’amore. Ogni singolo elemento della sua biografia le restituisce il coraggio di rimboccarsi le mani e di avviare nel 2020, sette anni più tardi, il suo sogno: diventare jewelry designer. E così è stato, parole sue.

Lavinia già a 20 anni avevi in mente di lavorare con i gioielli. Hai però posticipato al 2020, quando hai fondato il brand che porta il tuo nome. Come mai?
A 20 anni non si ha sempre una grande consapevolezza di ciò che si vuole diventare e fare. All’epoca giocavo con i gioielli. Era un esperimento che poi si è trasformato in altre esperienze, ad esempio la moda. Poi alla fine ho capito che il mio vissuto mi riportava ogni volta al gioiello. Ho lavorato per maison importanti, alcune a gestione familiare, altre guidate da sovrastrutture imponenti. Ogni momento è stato fondamentale per creare un mio bagaglio professionale. Tuttavia non volevo passare tutta la vita a occuparmi solamente di un aspetto solo di tutta la filiera. Per me creare è un processo con un inizio e una fine. Il famoso filo rosso. E nel gioiello ho visto questa possibilità, sia a livello di metodo che di costruzione. In effetti i pezzi che realizzo rappresentano la mia catarsi.

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Tra la maison che ti hanno dato molto c’è sicuramente Azzedine Alaïa. Quanto e cosa di quel periodo è rimasto in te e nei tuoi monili?
C’è tantissimo. Soprattutto nella mia esperienza di vita, più che lavorativa. Ho imparato il sentimento dell’umiltà. Azzedine mi ha insegnato ad amare il proprio lavoro e la precisione. Poi, guarda, da lui ho fatto qualsiasi cosa: dall’assistente, fino all’addetta stampa, per poi finire all’ufficio stile. Dovevo stare lì appena 3 mesi e invece sono rimasta un anno e mezzo. Lavoravamo 24 su 24 e poi cenavamo da lui, con lui, mangiando quello che il suo estro creativo aveva voglia di cucinare.

Anche tu controlli tutto nei minimi dettagli?
Sì assolutamente. Persino il sito ho deciso di crearlo io. E vale anche per la creazione delle mie collezioni. Dallo studio del pezzo che verrà, alla progettazione con la stampante 3D, in modo da eliminare gli sprechi, fino alla fusione in oro 18 carati. Quest’ultimo elemento è fondamentale per me: creare qualcosa di durevole, soprattutto in questo momento in cui vendere beni di lusso è un’operazione complessa. Mi piace pensare che il mio cliente possa avere qualcosa che con gli anni acquisti valore. E con l’oro è possibile a farlo. Per me anche il tempo è sinonimo di sostenibilità.

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Diciamo una volta per tutte che think green è imperativo per la moda e il design?
Non ci sono altre soluzioni. Bisogna ripensare il modo e il mondo in cui viviamo. Non esistono aeree o spazi che si debbano adattare ai tempi di oggi. Abbiamo vissuto privi di regole in questo senso e siamo in tanti. Così non si può sopravvivere.

L’architettura già da qualche tempo sta virando a costruire luoghi sempre più eco sostenibili.
Esattamente. Pensa che il modo solo di abitare sta mutando. Lo abbiamo notato proprio quest’anno con il Covid. Abbiamo realizzato che le case sono posti dove viviamo e non spazi dove torniamo dopo il lavoro. Dobbiamo creare luoghi che possano mantenerci sani, dentro e fuori. C’è un grande ritorno al concetto di locale - nel senso dell’autoproduzione, del chilometro zero - accompagnato al globale: si utilizzano le grandi tecnologie per realizzare prodotti e offrire servizi più a misura d’uomo.

Anche tu segui questo modus operandi, infatti produci in Italia, nonostante la maison abbia sede a Parigi, città nella quale sei nata.
Produco tra Roma e Arezzo. Tuttavia Parigi è, anche a livello di mercato, il mio punto di riferimento. Questo aspetto è importante perché ho deciso di auto produrmi e sostenermi. Per questo, tornando alla tua prima domanda, ho avviato solo ora il mio brand e non quando avevo 20 anni.

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Sei designer di gioielli ma anche business developer presso Studio Fuksas, realtà tra le più importanti al mondo per quanto riguarda l’architettura contemporanea. Quali sono i punti in comune tra i due mondi?
Il design di gioielli è un architettura in piccola scala. È un mezzo per soddisfare un bisogno che sia prima di tutto piacevole. Tuttavia, proprio perché è un mezzo, uno strumento, non è solo estetica. Un gioiello non è effimero. E tutto questo si riflette anche nel mondo dell’architettura.

Che valore dai all’estetica?
È molto importante ma non la definisco. È tante cose assieme: l’armonia delle forme, un piccolo difetto. Anche una risata fuori luogo. Per me sono tutti aspetti importanti i quali, spontaneamente, contribuiscono a creare la mia visione.

Infatti è grazia la parola che definisce il tuo brand di gioielli. Che significato le attribuisci?
Per me la grazia è un’ombra sulla pelle, qualcosa di delicato. Diventa importantissimo fare tutto con cura e delicatezza, in ogni aspetto della vita, non solo nel mio campo. Uno dei valori del mio marchio è proprio Ethically and Gracely Handcrafted in Rome. La grazia, più che la bellezza, salverà il mondo secondo me. Dare qualcosa in più a quello che facciamo - come la sostenibilità ad esempio - è bello e può salvare il mondo. Anche nei miei gioielli voglio che le persone ritrovino la grazia. Profilano direttamente il corpo, sono leggeri, nonostante il peso dell’oro.

Come crei questa leggerezza?
Sono sempre stata affascinata dai negativi, dagli spazi pieni vuoti. Prendendoli come punti di riferimento riesco a togliere la gravità dell’oro e dare grazia al gioiello. Quando ho ideato il brand, l’aspetto che avevo più a cuore era riuscire a fare capire che l’ispirazione per i miei gioielli è l’essere umano. Ci sono le pietre preziose (personalizzabili assieme al cliente con un servizio made to measure, previo appuntamento) ma non sono mai troppo in primo piano; vengono incastonate tra le trame del metallo. Come la vera bellezza dell’essere umano: è uno o più dettagli dentro ognuno di noi.

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Fluidità di genere e gioielleria, qual è il tuo punto di vista?
Quasi tutte le mie creazioni possono essere indossate sia da uomini che da donne. Dai gemelli fino agli anelli.

India, Pantelleria… È il viaggio un passaggio fondamentale del tuo processo creativo?
Sicuramente. La linea Jaipur, la città rosa, mi sta molto cuore. Per realizzarla mi sono ispirata a un regalo che ho fatto a una persona speciale durante uno dei mie viaggi in India. Pantelleria è tra i luoghi più importanti della mia vita. È un'isola molto più vicina all’Africa che all’Italia. Per questo le sue aree prendono appellativi africani (Gadir, Rekhale, Bukkuram), ed è con questi nomi che ho intitolato la maggior parte delle mie creazioni.

Durante la quarantena come hai fatto a mantenerti attiva da questo punto di vista?
Ho viaggiato molto con la mente e altri mezzi, come i social.

Da cui è nato nontihodettomai, un profilo e progetto su Instagram creato da te nel mezzo della Fase 1.
Precisamente. C’era in me l’urgenza di dare un palcoscenico che includesse tutti me esclusa, per il momento. Si tratta di un progetto molto appassionato, che sento molto. Non l’ho fatto solo per altruismo ma anche perché volevo (e voglio tuttora) sentire e comprendere cosa non va nelle altre persone, relativizzando quindi i nostri problemi che spesso ingigantiamo. Quando uscirà la campagna video dei miei gioielli nontihodettomai farà parte del progetto. Vorrei poterne poi fare una raccolta, collaborando con Antonio Marras, umanamente uno dei miei più grandi sostenitori, che ha anche curato l’immagine manifesto del progetto. È importante ascoltare, sempre. Bisogna essere altruisti. Dobbiamo fare il bene comune e non essere homo homini lupus.

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