Arrivati alla fine della Milano Fashion week, per i fan dei social network semplicemente #MFW, cerchiamo di raccogliere le ultime forze per fare un consuntivo di quello che è successo. Sulle passerelle ma soprattutto fuori. Perché il mondo deve sapere cosa succede tutt'intorno a flebili aliene volteggianti che vi fanno dire: «Ma com'è vestita questa? E perché non mangia dal '98?». Dice: i giornalisti. Dice: siete peggio delle portinaie. Dico: no, ci manca la cofana scarmigliata, ma abbiamo il caschetto piastrato. E la ramazza è sostituita da iPad volteggianti e vezzosi detenuti da svenevoli signori privi di rughe ma pieni di rouches. Che usano tanti hashtag. Ne inventiamo qualcuno a uso e consumo dei fashion people.

#fwnonnepossopiù Dopo 100 e passa tra sfilate e presentazioni, non è solo sparito quel «languorino» provato dalla signora in giallo con il maggiordomo Ambrogio. È una sazietà illimitata. Non è il solito starnazzamento dell'addetto ai lavori che, con manina rialzata sulla fronte, si accascia esalando: «La moda, oh che faticaaaaaa….». È che di marchi, griffe, maison, collettivi e duetti a firmare abitucci, ce ne sono troppi. Troppi. Pensate a un bibliofilo cui vengano scagliati sulla testa i 170 milioni di volumi della British Library, la più grande biblioteca del mondo. All'inizio sarà contento come un bambino in una pasticceria, poi sarà stuccato da tutta 'sta cultura tra capo e collo e sognerà un democratico analfabetismo. Stiamo messi così. Anche perché a chi le venderanno, a chi le piazzeranno, a chi le smerceranno queste creazioni di cui, in certi casi, il mondo poteva fare a meno? E poi: come le anatre del laghetto di Central Park per Holden Caulfield, dove andranno a finire quando saranno fuorimoda? Esiste un paradiso per il tessile invenduto o rimarrà nel purgatorio di «potevo essere il nuovo John Galliano ma la stampa non mi capisce perché è tutta corrotta?».

#allafinechemimetto? Disparate, disperate, le modalità espressive si affastellano come in un cassonetto dell'indifferenziata. Non è che qui si rimpiangano i tempi in cui c'erano quelle tre/quattro direttive di stile, si buttava il vecchio, si comprava il nuovo ed eri à la page. Però il turbinio di proposte, dalla vamp alla vampira, dall'androgina alla mater più o meno dolorosa, dalla drag alla draghessa, non è libertà di scelta: è entropia estetica, è moda tappabuchi e ammazzadesiderio, ulteriormente nebulizzata dallo spray visivo della superfetazione di immagini. Tutto questo instagrammarsi, postarsi, taggarsi dei web influencer, dei blogger, degli imitatori dei blogger, degli imitatori degli imitatori dei blogger (qui le gerarchie si rispettano, cribbio!) non fa bene al fashion system. Anzi, lo aiuta a suicidarsi, visto che già non si sente molto bene. Capita, come succede a chi scrive, di vedere per strada strani individui conciati alla bell'e meglio in modalità anticipata perché l'hanno vista sui social network. Per cui addobbarsi alla bell'e meglio a febbraio 2015 nella maniera in cui dovresti farlo a gennaio 2016, no dài: a chi giova? Nella migliore delle ipotesi finirai per annoiarti anzitempo, nella peggiore per essere picchiato. Ieri, in via Montenapoleone, c'era un tipo altissimo e barbuto con tutù da ballerina e gilet da pastore sardo che ha appena immolato la sua pecora prediletta per portarne le spoglie addosso. Pensava di farsi molto ammirare. I passanti hanno pensato che non pensasse. Se gli avessi chiesto perché si vestisse al futuro, sicuro come l'oro che mi avrebbe risposto che il futuro l'ho rubato io a lui entrando con l'invito vero alle sfilate.

#gossipisthenewblack «Ma Cavalli ha venduto tutto al fondo Clessidra o solo il 90 per cento»? «Perché hanno mandato via Peter Dundas da Pucci». «È vero che da Pucci va Peter Dundas o ci va invece Massimo Giorgetti?». «Lo sai che quello/a che fa tanto lo/la snob invece va a letto con…?». «Ma andare a letto con, porterà più pubblicità al suo giornale?». «No, guarda: i vestiti se li fa regalare, mica se li compra…». «Mamma mia com'è ingrassato/a!». «Questa sfilata è OR-REN-DA, ma mica lo posso dire». «Ah ah… L'hanno spostato/a in quarta fila…». «Stasera vieni al party? Dài, che si rimorchia ecchetefrega se prima ci dobbiamo sciroppare il défilé». «È vero che da voi ci sono un sacco di esuberi?». «Sono in esubero, non è che mi faresti collaborare con voi?».

#mammaguardacomemidiverto Dopo l'efficace sfilata di Dolce & Gabbana, sempre profetici, tutta dedicata alla mamma e al senso di maternità (a gennaio avevano lasciato spazio ai padri) e al fatto che ogni stilista e addirittura ogni modella è comunque un figlio e una figlia, la famiglia è un argomento che si porta molto. In prima fila da Moschino, mamma, sorella e nipotina di Jeremy Scott. Designer già noti in passato per una vita privata che definire "dissoluta" sarebbe un simpatico eufemismo, presentano al colto e all'inclito fidanzati a cui si dichiarano fedelissimi già dalle guerre puniche e pubiche. Stilisti che hanno superato la quarantina danno in pasto alla stampa madri centenarie, sorelle attempate e zitelle, fratelli geometri di cui gli stilisti si erano vergognati fino all'anno scorso, papà che si erano vergognati fino all'anno scorso di avere un figlio stilista e non geometra. Si sospetta che, in tempi di recessione come questi, uno dei lavori con le maggiori possibilità di guadagno sarà quello di noleggio congiunti, possibilmente dai cognomi altisonanti.

#noluogocomunismo Io vi capisco, eh: però siamo giornalisti, mica macchine per scrivere. Il luogocomunismo non è una tendenza politica, ma un noioso ricorrere al solito dizionario degli aggettivi che orsi è stantio, ingiallito, raffermo. Per cui non si dà sfilata di Prada che non sia "futuribile e innovativa", di Versace che non sia "aggressiva e sexy", di Alberta Ferretti che non sia "romantica e femminilissima", di Moschino che non sia "provocatoria e dell'enfant terrible Jeremy Scott" anche se lui è decisamente adulto e decisamente di buon cattere, di Fendi che non sia "artigianale e tecnologica", di Jil Sander che non sia "rigorosa e minimal", di Gucci-nuovo-corso "bohemian e intimistica". Su tutto e tutti, troneggia come una nuvolaglia nera lo spaventoso "iconico" per qualsiasi cosa non esca dai guardaroba due mesi dopo l'acquisto. Urge dizionario dei sinonimi e dei contrari (signori delle griffe, vi regalo questa idea per il prossimo Christmas gift: un Christmas che è "fastoso, festoso, irrinunciabile". Paura.

#nonèbelloquelcheèbello Gli abiti da sera saettanti e grafici di Versace, anzi di Vers@ce. Le sottovesti di inserti alla Depero di Massimiliano Giornetti per Ferragamo. Il vestito anni 60 lisergici di Prada. I pois tridimensionali di Bottega Veneta. Le cuffie (quelle per ascoltare la musica) incrostate come gioielli di Dolce & Gabbana. Il colletto Claudine rimovibile di Giorgio Armani. Le stampe a fiori fiabeschi di Gucci. Il mix & match, nella stessa mise, di punti a maglia di Missoni. I cappotti verticali di Karl Lagerfeld per Fendi. Le bluse bianche di Lorenzo Serafini per Philosophy di Alberta Ferretti. Le lavorazioni "rinascimentali" di Alberta Ferretti. Il cappotto rosa da Madame de Merteuil di Antonio Marras. Le asimmetrie sartoriali di N°21 di Alessandro Dell'Acqua. Volevate sapere cosa ci è piaciuto? Ecco. Sarà anche vero che la moda è già morta, come sostiene Li Edelkoort, visionaria futurologa delle estetiche a venire. Ma la voglia di vestirsi sta bene, benissimo. Il problema non è trovare nuovi consumatori ma far sì che entrino nei negozi non troppo consumati.