Non nascondiamoci dietro al solito dito. Le voci di una possibile dipartita di Frida Giannini dal ruolo di direttore artistico di Gucci stavano lievitando come un panettone nel forno già da Natale scorso. E poi, tutto d'un tratto, la notizia-bomba: non solo Frida, ma anche il ceo Patrizio Di Marco - ormai ex - sono andati via. Che dire? La moda, oggi più che mai, è costretta a entrare nella logica più efferata e crudele del profitto. Basta quindi solo un anno con un segno meno davanti, basta un passo falso, uno solo per farsi simpaticamente dire «adieu»: in questo caso, un segno meno per i fatturati della maison nel primo semestre del 2014 (-4,5 per cento, però dal 2009 al 2010 Gucci aveva aumentato le vendite del 17 per cento).

Dispiace. Dispiace soprattutto a livello umano, uscendo per una volta dal discorso «questa stagione mi è piaciuta/non mi è piaciuta». Giannini non è solo stata la più longeva dei suoi predecessori, compreso Tom Ford, ma aveva messo in capo un fattore, quello etico, che ha insegnato molto all'intero fashion system. Prima a impegnarsi nella tracciabilità dei materiali, prima ad assicurarsi che l'intera filiera produttiva di tutto l'impero della doppia G - abiti, accessori, gioielli - fosse non solo realizzata senza far troppo male al pianeta, ma soprattutto a chi quei prodotti li faceva. Prima a inventarsi, ora che il femminismo è tornato prepotentemente di moda, la potente iniziativa di Chime For Change che ha coinvolto donne strafamose a difendere altre donne meno fortunate e sicuramente meno potenti nel nome di istruzione, salute, giustizia. Valori che prima erano antitetici al mondo del lusso e della produzione per quell'élite di ricchi ricchissimi, per una volta coinvolti in cause umanitarie.

Deprimente regolarità meccanica. Anche i sogni s'infrangono contro le regole del guadagno. Non sia detto che possa inflaccidirsi, benché il gruppo Kering (dove oltre a Gucci ci sono brand come Bottega Veneta, Saint Laurent, Balenciaga, Stella McCartney, Alexander McQueen…) abbia registrato un'impennata del 3,3 per cento. Non si può sbagliare una collezione, non si deve perdere una sola oncia di capacità attrattiva per vendere, vendere, vendere. A un mercato sempre più globale e sempre più ristretto che sta inviando a fare fatica ad assorbire borse dai prezzi astronomici, abiti che costano quanto un viaggio intercontinentale, pellicce che valgono quanto un appartamento. In centro. Chi la sostituirà? Forse Joseph Altuzarra, forse Tabitha Simmons, forse Riccardo Tisci, forse Rachel Mansur e Floriana Gavriel (chi?!). Sicuramente un altro impiegato a cinque stelle con uno stipendio astronomico ma infinitamente più precario di un co.co.co.

Chi spiegherà alle generazioni di giovani creativi di oggi che c'è stato un tempo in cui, se gli stilisti sbagliavano una collezione, guadagnavano meno e tutto finiva lì? Chi dirà loro che c'è stata un'epoca in cui mettere a punto uno stile non corrispondeva a tirare una riga sotto una serie di somme e sottrazioni, ma era espressione di un pensiero che si allenava nella palestra della fantasia, dove potevano anche non esserci sempre gli attrezzi adatti? Come trasmettere a chi disegna oggi che la moda è anche ricerca, capacità di ritrovare le radici di un'identità forte? Alla Giannini va il merito di aver riscoperto la stampa Flora, la pelle Guccissima, insomma tutti quei simboli "iconici" - per quanto orrore mi faccia questa parola - che erano stati spazzati via da Tom Ford. Sicuramente alla coppia (anche nella vita) Frida e Patrizio si offriranno nuove opportunità per le rispettive carriere. Però è in momenti come questo che lo scintillante mondo dei Luxury Goods ci mette un po' paura. Fa emergere tutto in superficie: crudeltà nascoste, attitudini di sfrigolante sgradevolezza. Staremo a vedere. Noi siamo qui: vecchi testimoni di un lusso che non deve mai farsi controllare dai padroni.