Da un lato: il fast food più famigerato del mondo accusato di sfornare non panini buoni, ma potenziali ciccioni. Dall'altro: il marchio di made in Italy più intellettuale che c'è, celebrato come autore non solo di belle cose, ma di nuove visioni (non adatte ai ciccioni). Ora: per una volta usare “da un lato” e “dall'altro”, non è solo una questione sintattica. È un dato geografico. Anzi, toponomastico. Sotto la Galleria Vittorio Emanuele di Milano, - nella zona centrale detta Ottagono, dove sul pavimento in mosaico c'è da maciullare le palle al toro, nello stemma di Torino - ha chiuso McDonald's perché i suoi spazi sono stati comprati a caro, carissimo prezzo da Prada. Ha scalzato perfino l'altro concorrente, nientemeno che Apple, così incavolato da andare per ripicca a Torino per aprire l'unico Store italiano. Peccato che di fronte al nuovo Prada ci sia il “vecchio” Prada, il primo negozio fondato nel 1913 da Mario Prada e dal fratello Martino. Ad affacciarsi sull'Ottagono - che poi è un quadrato - c'è un maxinegozio di Louis Vuitton, un'argenteria di vecchia data e, in Galleria, griffe come Gucci, Borsalino, Swarovski. Ah, sì: c'è la libreria Rizzoli e quella Feltrinelli - per quanto? - ma per prendere un caffè o mangiare qualcosa sotto la cupola di Giuseppe Mengoni (cui si ispirò Gustave Eiffel per la torre parigina), non puoi affidarti agli spiccioli. Ci si può sedere in ristoranti di grandi chef, in bar dove un-caffè-uno costa dai tre ai cinque euro o dentro brutte pizzerie dove una margherita (cattiva) arriva anche a 25. Non sarà possibile ammirare la cupola di ferro e metallo seduti su sgabelli in plastica trangugiando McBurger e milkshake, ma pranzando a 10 euro. Ok. Il liberismo economico fa sì che la Galleria torni a essere “il salotto buono” di Milano senza il pericolo di proletarie svolazzanti unte. E si capisce che 122 milioni di euro per 18 anni, l'affitto pagato dal brand (il 150 per cento in più di quello offerto da Apple), fa bene alle casse del comune. Eppure la gente non è contenta: non è detto che qui i turisti siano per forza emiri, discendenti di zar o ultimi nipotini dell'imperatore cinese. La domanda è: se esisteva già una boutique – e una boutique storica, là dove tutto cominciò, prima di Miuccia - era davvero necessario acquisire altri 5000 mq. per vendere i medesimi abiti e gli stessi accessori (sì, ci sarà un bookshop e un ristorante stellato, appunto)? Qual è il dovere di una città e di chi l'amministra? Accogliere tutti quelli che arrivano? Offrire un biglietto da visita smagliante? La sensazione è di mestizia dura. Che sia moda a cinque stelle, tecnologia d'avannguardia, cibo preconfezionato, alla fine questa è una battaglia dove esiste solo un vincitore: la globalizzazione. E il trionfo di ciò che si chiama marcatura del territorio. Spiace dirlo: un'espressione che ci ricorda il “territorial pissing” dei gatti.