In Rua Augusta, a San Paolo, sono le sette del mattino. C’è gente dappertutto, discoteche e bar aperti, drag queen che sfilano, studenti che ballano fuori dai locali, prostitute che ti fanno l’occhiolino e prostituti pure, signore di una certa età che chiacchierano neanche fossero lì a prendersi il tè del pomeriggio con le amiche, brave ragazze di buona famiglia con ragazzi dalla pessima reputazione e pessime ragazze però così belle da accompagnarsi a maschi adulti ma indubbiamente ricchi quanto tonti, sportivi che fanno jogging, pensionati che fanno passeggiare il cane. Ah, è giovedì, anzi venerdì. Sono tutti insieme. Bianchi, neri, di più: ogni sfumatura possibile dell’arcobaleno epidermico, e poi ricchi, poveri, etero, trans, giovani, giovanissimi, meno giovani, disoccupati, sovraoccupati vanno a spasso, si dimenano, sgomitano, si fotografano, ridono, urlano ai cellulari di ultima generazione. Intenti a godersi un’allegria ormai sconosciuta agli scafati e sempre più malinconici europei, che non riescono a credere come nella Trastevere (o nella Brera, se preferite) della megalopoli brasiliana possa esistere un tale entusiasmo malgrado lì per terra – guarda! – uno si stia drogando davanti a una vetrina di lusso o nell’aria si senta l’imprecazione dell’ennesimo turista quando si accorge che qualche manolesta gli ha sottratto con una certa gentilezza, il portafoglio dallo zaino. Partiamo da qui, da questo quartiere che un tempo era una degradata zona a luci rosse e ora è a ridosso di Jardìm, l’area dei ricchissimi paulisti che vanno a fare shopping nella perpendicolare Rua Oscar Freire – la Montenapoleone locale o la via Condotti, se preferite – per metaforizzare la condizione del Brasile di oggi.

Un paese che vive una rinascita senza la retorica dell’autocelebrazione genere «Ma come siamo stati bravi» e però senza neanche quel revanscismo genere «Ci avete considerato il Terzo Mondo e adesso ve la faremo pagare». Non c’è rancore né vanità, quanto quella gioia di essere qui-e-ora che è un sentimento che noi abbiamo provato, certo, ma fatichiamo a ricordare con esattezza quando. Così a Leblon, la zona più chic di Rio, sul lungomare, sempre alla stessa ora manager e operai fanno ordinatamente la fila sulla spiaggia per glorificare il corpo e modellarlo con gli attrezzi da ginnastica che il Comune ha fatto disporre gratis perché tutti li possano usare: poi c’è chi andrà in banca, chi a sfasciarsi con la prima caipirinha della giornata ma è un altro giorno da festeggiare, un'altra mattina da celebrare, un altro giro di giostra vitale che si deve – perché si deve - onorare almeno con un sorriso.

Del resto, le cifre parlano chiaro: + 14 per cento l’economia dal 2010 a oggi, + 19 miliardari al giorno dal 2007 secondo Forbes, + 7,892 miliardi di esportazioni in Cina solo nel mese di marzo. Tutto in Brasile, oggi sembra avere un segno più, davanti. Più ricchezza, più distribuzione del denaro in maniera ragionata per far nascere una classe media, inesistente fino a trent’anni fa, più energia, più sfruttamento delle risorse naturali. Ma anche – e questo forse ha ancor maggior importanza, per noi – più gioia di vivere, più figli, più simpatia, più opportunità di cambiare vita in un subcontinente dove si passa dalle montagne alle distese marine, dalle foreste alle megalopoli, dai laghi incontaminati a luoghi con il più alto in inquinamento del mondo. E più creatività, più coscienza del proprio valore, più gusto, più desiderio di mostrare e dimostrare al mondo quale e quanta sia la ricchezza culturale di un popolo che nasce frammentato in mille rivoli etnici, «eppure non abbiamo mai vissuto una guerra», mi fa notare un’amica carioca. Il che forse spiega molte cose, ma soprattutto quel trasloco dell’Eldorado dall’Italia a qui, tanto che esiste da anni un sito, Vivere in Brasile, che dà utili consigli agli italiani che decidano di tentare la fortuna in un posto dove il clima è benedetto, il buonumore è contagioso e la richiesta di lavoratori talmente alta da far venire voglia ai nostri connazionali di inaugurare una seconda ondata di emigrazione, dato che in Brasile la comunità italiana è fortissima e numerosa. L’ottimismo è palpabile e concreto: nella produzione artistica, in quella del design (come si è visto di recente a Milano, durante il Salone del Mobile), nelle fashion week di San Paolo e di Rio de Janeiro dove i fashion designer (Osklen, Alexandre Herchcovitch, Pedro Lourenço, solo per citare i più internazionali) si sforzano di elaborare una propria estetica che non risenta dei grandi brand del Vecchio continente, asserragliati nei meravigliosi mall di Iguatemi, sparsi in tutto il paese, o nel mirabolante Cidade do Jardim di San Paolo, il più lussuoso di tutti. «A New York ci sono 7 eliporti privati, qui a san Paolo 700», mi dice una collega di O Estado do Sao Paolo che con O Globo rappresentano Il Corriere della Sera o Repubblica brasiliani. Joanna, la collega, ha 26 anni e un lungo futuro da cronista davanti. «Però ricordo che quando ero piccola», confida «mia madre quando prendeva lo stipendio lo andava a spendere tutto in roba da mangiare che stipava nel congelatore perché non si sapeva se il denaro avrebbe avuto lo stesso potere d’acquisto a fine mese». Cosa e come sia successo che un paese che ha conosciuto povertà, vessazioni, dittature e grandi sperequazioni socio-culturali ora viva questo boom in poco più di vent’anni, può sembrare miracolistico (anche se non lo è).

Ma questa è un’altra storia. Resta lo scambio di una vita sognata, che prima aveva come destinazione l’Europa e ora ha invertito la rotta. L’arrivo del brasile nell’arena della globalizzazione come giocatore di serie A sta diventando un argomento da affrontare molto seriamente. Tutte le grandi industrie estere hanno un avamposto qui e il nuovo potere dei consumatori sta arrivando a quello dei russi e dei cinesi. Ma questa accelerazione del benessere non riguarda solo la capacità di spendere: quando un paese diventa una superpotenza tende quasi fisiologicamente a esportare la propria cultura. E il Brasile ha molto da offrire al riguardo. La sua combinazione di antichità e ipercontemporaneità, natura selvaggia e cemento imbizzarrito, le sue radici africane, europee, amazzoniche, orientali, stanno per ridefinire la nozione di cosmopolitismo. Non è più solo samba, Pelé, Gisele, ceretta, Pan di Zucchero, foreste pluviali, favelas, Carnevale, capoeira, Caetano Veloso, telenovelas, saudade e tanga: c’è tutto un mondo nuovo che si vuol far scoprire e lo chiede sorridendo. Ma (ce) lo sta chiedendo. Eccome.