1977: il settimanale tedesco Der Spiegel, per raccontare un’Italia martoriata da terrorismo e mafia, sbatte in copertina una P38 su un piatto di spaghetti. 1982: Time Magazine, per la seconda volta nella sua storia (la prima volta era stato con Christian Dior) mette in copertina uno stilista, Giorgio Armani, con il titolo “Giorgio’s Gorgeous Style”.

In soli quattro anni, in soli 48 mesi la percezione del nostro paese cambia da così a così. Da patria dell’orrore, del pericolo e dell’arretratezza sociale, l'Italia si metamorfizza in culla predestinata a svezzare il Bello, l’armonia, l’originalità. Penso che questo sia l’augurio da fare a King George nel giorno del suo 80mo compleanno: riconoscere come grazie a lui - e ad altri come lui - si possa cambiare l’immaginario legato a un determinato luogo, sperando che lo possa fare anche nei prossimi 80 anni.

Perché, senza (s)cadere nella retorica del “quanto è bravo”, c’è da registrare la portata rivoluzionaria che la sua moda regalò al mondo, trasformandone il destino. Una cosa che è riuscita a pochissimi: Coco Chanel, Karl Lagerfeld, Yves Saint Laurent, Miuccia Prada. Eversiva, sconvolgente, contestatrice: Armani - ma qualcuno se lo ricorda in questo dannatamente smemorato mondo della moda? - fu il primo a rivestire le esigenze di una donna che, uscita più o meno trionfante dagli anni del femminismo, dei gonnelloni, degli zoccoli e arrivata con molta fatica nelle stanze del potere, si accorse di non avere nulla da mettere. Le inventò una divisa che prima non c’era, un modo di apparire autorevole prima che autoritario che trova nel redesign del blazer al femminile il cardine su cui posare la porta girevole che la porta dritta dritta nel suo nuovo ruolo nel mondo.

E poi agli uomini regala una morbidezza di forme e tessuti che prima venivano attribuiti solo al guardaroba per lei, in una festa di creatività che celebrò non l’utopia (poi rivelatasi distopia) dell’unisex ma l’indifferenzazione dei generi. I suoi vestiti hanno dato, letteralmente, sostanza ai desideri di chi, in quegli anni, lottava per la parità dei sessi in tutti i campi, a cominciare da quello professionale. Successivamente: l’invenzione dei colori-non-colori, il fango, il “greige” - una contaminazione tra grigio e beige - le texture innovative, il nylon dei militari per i giubbotti da città, la seta per il tailleur da manager.

Armani ha inventato quell’Italian Style che è fatto di funzione & forma, chic & choc, classe & lotta di classe. È stato il primo a capire, con l’aiuto di Sergio Galeotti, (il suo socio scomparso troppo presto - a 40 anni! - nel 1985), che il lusso andava democratizzato perché il maggor numero di persone potessero impararlo. Nasce Emporio Armani, la prima delle seconde linee nell’universo, i jeans firmati e ridisegnati per dare slancio e sensualità a tutti i corpi anche con un capo che era destinato a coprire più che a vestire, l’estensione della firma al mercato infantile, il primo profumo di un designer italiano, il primo marchio ad autorappresentarsi attraverso un animale simbolo, l’aquila.

Adottato e compreso nella sua più intima essenza progettuale prima dagli americani che in Italia, ha compreso che i testimonial, le celebrity, i divi che a tutt’oggi sfoggiano i suoi capi sui red carpet di mezzo mondo possono influenzare il gusto di un’epoca molto più di una pubblicazione di moda. Chi non ricorda la scena di American Gigolo in cui un bellissimo e tonico Richard Gere apre i cassetti del suo gigantesco armadio dove tutto - tutto - è firmato G. A.? A chi non viene in mentre la scena simbolica di Una donna in carrieradove l’intelligentissimo ma un po’ rozzo personaggio recitato da Melanie Griffith diventa visibile al mondo quando ruba i vestiti Armani alla sua capa sofisticata ma scema interpretata da Sigourney Weaver?

Laddove il suo quasi coetaneo Valentino è stato il Mozart dello chic nazionale, Armani è stato lo Stockhausen dell’eleganza internazionale: alla melodia delle belle linee contrappone la destrutturazione delle silhouette, introduce elementi “disturbanti” come i pantaloni per la sera più rarefatta, immette nella sartoria il ritmo indiavolato della produzione industriale, serializzata, uniforme: “uniforme” nel senso di uguale in ogni parte del mondo e come sineddoche di un’estetica composta e ferocemente contemporanea. Capisce presto che per rimanere indipendenti, un designer deve fare colpi di testa e deve fare (anche) di conto, si inventa manager di se stesso e di un impero che oggi fattura 4 miliardi di euro all’anno.

Auguri, signor Armani (non sono mai riuscito a dargli del “tu”, tanto è il rispetto che incute ancor oggi ai giornalisti di moda e non): come sarebbe bello che tutti gli aspiranti stilisti studiassero ciò che lei ha fatto, elaborato, messo a punto, escogitato in 40 anni di attività, senza mai perdere un colpo. Scommettiamo che molti di loro, se scoprissero tutte le sue creazioni, si darebbero giustamente per vinti e impedirebbero, per nostra e loro fortuna, di infliggerci disutili “creazioni”?

P. S. Non si è mai comportato da demiurgo arroccato nella turris eburnea delle sue idee. Lo si può incontrare la mattina presto mentre, a Milano - nell’Emporio di Via Manzoni, primo concept store monomarca dove si può mangiare Armani, vestire Armani, dormire Armani, ballare Armani, leggere Armani, farsi fare massaggi Armani, mangiare cioccolatini Armani o comprare un bouquet Armani - sorveglia la realizzazione delle vetrine, fa attenzione a come sono sistemati i fiori nei vasi, cura come sono disposti i libri nel bookshop. Smania di controllo? Eccesso di perfezionismo? Ma ben vengano! Una mattina, alle 8, mentre passavo di lì, l’ho visto mentre reggeva la scala a un operaio che stava cambiando una lampadina sul soffitto. Pura poesia. Perché se il diavolo è nei dettagli, come dicono, forse nei dettagli è domiciliato anche Dio.