«Mentre voi dormite, Freud lavora», diceva Marcello Marchesi. E così sia. C'è da registrare una notevole e strombazzatissima dichiarazione di libertà da parte dei designer italiani. Cosa che, se fosse vera, finalmente riporterebbe al centro della scena quella cosa che negli ultimi anni era scomparsa dalle passerelle, tanto da convincere qualcuno a chiamare la Sciarelli a Chi l'ha visto?: la creatività. Siccome, però, il segno "meno" ha cominciato a suonare al campanello dei fatturati di maison di moda anche celeberrime, ci si è dati una smossa.

1) Esemplare, in tal senso, la collezione di Alessandro Michele per Gucci, che accompagna la collezione con citazioni di Giorgio Agamben (il più grande filosofo italiano vivente) e Roland Barthes (il più grande semiologo che si è occupato di moda, defunto) nello stesso testo. E appellandosi «All'inattualità come filtro per accedere a una migliore comprensione del presente", in realtà non fa altro che aderire con la forza di un Attak emotivo a quello che attualmente è l'estetica che più riscuote successo tra i giovani di tutto il mondo. Vedi la tribù, neanche così nuova, dei "Twee", evoluzione sdolcinata, desessualizzata, coccolosa degli hipster, tutto vintage e niente nuovo, un po' analogici un po' nostalgici, un po' fiabeschi un po' clowneschi, che vorrebbero il mondo a forma di gigantesco asilo nido in colori da marshmallow, un partner a forma di pelouche (anzi, meglio direttamente un pelouche) e in caso di tristezza si consolano con confetti, biscotti bio a forma di cuore e visioni reiterate di Her di Spike Jonze. E a questo punto, una citazione la facciamo noi: scommetto che il nuovo direttore creativo di Gucci ha letto Twee: The Gentle Revolution in Music, Books, Television, Fashion, and Film di Mark Spitz che sostiene come Miranda July, Wes Anderson, Belle e Sebastian, (solo alcune puntate di) Girls e l'intera esistenza di Zooey Deschanel, quella di Alba e Alice Rohrwacher e di Alice ed Ellen Kessler, siano i capisaldi di questa generazione emotivamente iperglicemica. Altro che trionfo del sogno, questa è L'arte del sogno di un Twee ante litteram, Michel Gondry. Altro che sfasatura temporale, questa è l'intelligente (e furbetta) registrazione del momento che viviamo.

2) Nella vita in pastellorama, emerge in tutto il suo arcobaleno di toni da ghiacciolo intossicato la signora di Prada. Cioè l'evoluzione dell'evoluzione degli hipster, ma con più soldi, fatta meglio, dotata di maggior buongusto e ironia per uso esterno. Certo, il gioco a cui ci ha abituato Miuccia inizia a essere lievemente autoimitativo: esaminare il guardaroba perbene, quello da borghese, fargli male, drogarlo e congiungerlo con materiali ai limiti della fantascienza. Il risultato è una bellezza geneticamente modificata con jersey che sembrano neoprene e neoprene al posto della pelle. Questa volta è un ulteriore segno dei tempi coagulato in forma di vestito: le silhouette sono anni 60, i toni e i materiali, no. Esattamente come in televisione ammiriamo MasterChef mentre mangiamo l'ennesima merendina industriale. Ma il sapore artificiale, ahinoi, è sempre meglio di quello bio, alla faccia della gastronomia vegana e del crudismo più salubre.

3) La promiscuità sartoriale è uno dei motivi per chi adoriamo Karl. Noi lo capiamo (sì, credici): siccome il Climate Change chiama la pelliccia, vera o falsa che sia - usata anche a sproposito, visto che ormai i Dr. Scholl's inventati dalla mai troppo lodata Phoebe Philo sono arrivati ai piedi di chiunque - il sense of humour del demiurgo della moda raggiunge per Fendi inarrivabili vertici di divertimento. Se l'ispirazione è tratta da Sophie Henriette Gertrude Taeuber-Arp, artista costruttivista sconosciuta ai più se non come moglie di Jean Arp, è nell'uso di visoni rasati per tubini morbidi come peluche che sembrano sintetici (vedi sopra) che c'è sapienza, esperienza, eleganza ganza. E organza.

4) L'infantilizzazione forzata di Jeremy Scott per Moschino non ha requie: se finalmente non era monotematica - come la Barbie della scorsa stagione - è nella sequenza dei pullover con i cartoni animati dei Looney Tunes, presentata su una parata orizzontale di cinque-biondone-cinque (un omaggio alle top degli anni 80, e alla moda degli stessi anni di Enrico Coveri e di Iceberg) che l'atmosfera si scalda. Siamo sempre lì: che sia il patchwork di denim che usavano i nostri genitori, le borsone a forma di Bugs Bunny, le medaglie con la faccia di Titti e l'incursione di abiti da sera anni 50 nel garage dove i writer preparano gli spray per andare a decorare la città, la moda milanese vista finora sancisce la voglia prescrittiva di non crescere, di eludere l'essere grandi per rifiutare una realtà troppo triste. Se le immagini dei tiggì rimandano la distruzione di opere d'arte millenarie per mano di pazzi fondamentalisti, forse si può comprendere come il vero desiderio sia chiudersi in casa sotto il copriletto di maglia all'uncinetto per strapazzarsi di bacini sulla fronte.