«Sa cosa mi viene in mente vedendo questi giovani stilisti qui a Firenze? La mia prima intervista, quella con Oriana. Ero così emozionato, così giovane. E lei lo era con me». Il fatto che Roberto Capucci nel 1951 venisse intervistato da una giovane Fallaci, chiamata a scoprire per Epoca chi fosse quell'altrettanto giovane ragazzo romano che aveva fatto scoppiare a Firenze "una bomba della moda", basta già a descrivere perché Capucci non è mai stato solo uno stilista. Incontrarlo oggi e riportare ciò che leggerete nelle prossime righe, a sessantacinque anni da quella sfilata di cinque abiti nel parco della villa del marchese Giovanni Battista Giorgini, è un'ulteriore conferma di quanto trascendere il tempo sia un potere probabilmente concesso a: miti, supereroi, forse i buchi neri di Stephen Hawking e a chi in ogni campo riesce a sfidare ciò che è cambiamento di per sé (la Signora Moda, in questo caso) e l'annesso "tempo impaziente" di Simmel. Rimanendo volutamente, e certo anche discutibilmente, sempre fedele a se stesso. Soprattutto in un momento in cui un termine che come outsider viene usato, abusato e cucito nelle trame delle logiche commerciali che agiscono per Capucci al di là del suo atelier. Là dove il brusio del presente è il suono che solo alcuni grandi ancora ascoltano, cercando di istruire le nuove pedine di un sistema, come quello della moda, ora più che mai stretto nella morsa dell'atavico compromesso tra profitto e creatività.

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Roberto Capucci nel suo atelier a Roma negli anni 50.

Prima di ritrovarsi scomodamente seduto insieme a me e al mio bicchiere di vino, che come suggerisce il suo braccio destro Serena Angelini lui affianca diligentemente a un bicchier d'acqua, Capucci rimane seduto per oltre due ore in prima fila davanti alla passerella allestita al teatro Obihall di Firenze. L'occasione è la sfilata degli studenti dell'Accademia Italiana, la scuola di moda che l'ha invitato come ospite speciale per consegnargli la "Piramide dell'eccellenza", il premio che da dodici anni l'istituto assegna alle più importanti personalità del settore. Di certo non mi è dato sapere tutto ciò che è passato nella sua mente durante il défilé, ma il suo sorriso sotto i baffi davanti alla visione di rouches e abiti scultura di stilisti in erba, e poi il suo fragoroso applauso finale, mi conferma nuovamente quanto sopra. Saliamo insieme le scale che portano al primo piano del teatro, dove poco dopo gli ospiti sederanno a cena. Gradino dopo gradino, con qualche dovuta pausa. «È un premio pesante da portare da soli per tutti questi gradini in salita», mi sussurra non accorgendosi (o forse accorgendosi benissimo) di avermi appena dato con nonchalance la prima di una serie di lezioni che troverete tra poco. «Stasera mi sono molto divertito», mi dice accomodandosi su una sedia troppo alta anche per me, mentre una processione di persone si mette in fila per salutarlo. «Per me questa è una ventata di gioventù. Di follia, di gioia. Il mio pensiero va a quel giorno del 1951 a Villa Torrigiani. Il giorno in cui Giorgini creò la moda italiana».

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Roberto Capucci osserva una sua creazione nel suo atelier di Roma, negli anni 50

Sono passati sessantacinque anni ma non c'è intervista in cui lei non lo ricordi. Non ha mai smesso di ringraziarlo. È una grande lezione.
Tutto ciò che lei vede attorno a noi stasera, così come le sfilate che io non guardo più, lo si deve a lui. È stato un uomo intelligentissimo. Prima si andava a Parigi, tutti presentavano le collezioni solamente là. Riuscì a portare a Firenze i più grandi giornalisti di moda dall'America, ma anche i tedeschi, gli inglesi. Grandioso. È stato un onore per me assistere all'affissione della targa a lui dedicata, in via dei Serragli qui a Firenze. Quel giorno mi sono guardato attorno, ero rimasto solo io. Gli altri di quella generazione sono quasi tutti morti. Tutto il mondo della moda dovrebbe ancora ringraziarlo. Io lo faccio sempre.

È incuriosito da qualcosa della moda di oggi? La segue?
No, ora seguo solo i giovani. La mia sartoria è affollata di studenti. Sono più di settanta e arrivano da tutto il mondo. Vengono da me per avere un consiglio, per documentarsi per la loro tesi. Di solito arrivano per concluderla, per avere un colloquio con me, una chiacchierata prima della stesura finale. È una cosa che mi riempie di gioia. E forse è ancora più affascinante per me che per loro.

Pensa che i défilé negli ultimi decenni siano rimasti statici? Ho chiesto recentemente la stessa cosa a Olivier Saillard. Mi ha detto che l'immobilità nell'evoluzione delle sfilate "è un problema arrivato al suo culmine". Lei nel 1965 ne organizzò una al buio, a Parigi, illuminata solo dalle perline fosforescenti dei rosari che decoravano gli abiti.
L'ispirazione mi arrivò un giorno a Roma, mentre stavo guidando. Stavo andando a trovare degli amici all'EUR. Vidi questa processione diretta verso il Divino Amore, dove si va a pregare e a sciogliere i voti. Rimasi affascinato. Ho avuto fortuna e sa perché? Il giorno prima a Parigi, proprio quando sfilava Dior, la città rimase al buio per lo sciopero della luce. Quando le mie modelle salirono in passerella, sembravano degli spettri. Io però ero terrorizzato dalla reazione dei compratori. La grève! C'est pas possible! Sa come sono i francesi quando si arrabbiano. E invece ci fu un'ovazione. Il giorno dopo uscì la copertina e il servizio di Life. Un momento stupendo.

Quindi è singolare che dopo gli anni 70 la modalità non sia cambiata? Crede che manchino le idee o che si dica di osare in realtà non osando?
Guardi, io quando ho cominciato ho fatto la mia seconda collezione tutta di paglia. Al tempo gli americani rimasero tutti perplessi. Succede così. Oggi non credo che manchino le idee, sono i tempi ad essere cambiati. Poi, parlando di chi davvero è alle prime armi, e sono loro che mi interessano, devo dire che se questi ragazzi di stasera avessero avuto a disposizione soldi, tessuti particolari e possibilità di fare lavorazioni più elaborate e accurate chissà quale sarebbe stato il risultato. Certo, con i giovani bisogna aspettare. E poi bisogna studiare, studiare e ancora studiare. Non bisogna mai perdere tempo con le cose inutili. Io non ho mai perso tempo con cose inutili. Ho dedicato la mia vita al lavoro, al cento per cento. Prima c'era il lavoro e poi arrivano gli amici, i divertimenti. Ma prima sempre il lavoro.

Se ne pente?
Sì. Non lo rifarei più. E sa perché? Perché sia ama una volta sola nella vita. Poi gli altri amori passano. Certo, ci sono anche altri tipi di amori. Per me la moda è stata, oltre che un grande amore, anche un grande virus. Una malattia che uno si porta addosso. Ancora oggi alla mia tenera età di 85 anni disegno tutti i giorni e tutto il giorno, non ne posso fare a meno. Sempre, ne ho bisogno. È uno sfogo.

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Roberto Capucci con le sarte del suo atelier, negli anni 50

C'è qualcosa che la disturba oggi?
Per strada a volte vedo delle cose, guardi! Ma sa come ho risolto? Ho scelto di vederci il lato comico. Mi sono sempre sfogato con gli amici, commentando ciò che vedevo attorno a me. Un giorno mi hanno detto: perché non la prendi con ironia? Così ho iniziato a fare le caricature di tutte le persone che vedevo in giro. Ho più di trecento disegni. Mi diverto così tanto! Cammino, ogni tanto mi giro, osservo, sorrido. E poi torno in atelier e li disegno.

C'è un viaggio che rimpiange di non aver fatto?
Avrei voluto viaggiare di più per il Sud America. Sono stato solo in Uruguay e in Brasile. Dovevo esporre, quindi approfittai del viaggio di lavoro. Ricordo che stava iniziando il carnevale a Rio. Devo dire che quella parte del mondo mi manca, avrei voluto visitarla di più.

Crede che tornerà un tempo in cui uno stilista, sempre se si chiamerà ancora così, potrà tornare a creare liberamente?
Non so. So però che oggi tutto è diventato così commerciale. È difficile distinguere cosa potrebbe fare una persona fuori da queste logiche di oggi, dal commercio. Valutarlo per un lavoro che fa di testa sua. Pensi che la prima volta in cui presentai i miei abiti, non avevo neanche vent'anni e non ero nessuno, chiesi a Giorgini: marchese, io che devo fare? Una domanda cretina, me ne rendo conto. Ma lui si girò e mi disse: a un artista non bisogna mai dire quello che deve fare. Lei deve fare quello che vuole. E da allora iniziai a sfogarmi come un pazzo.

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Roberto Capucci ritocca una gonna in tulle nel suo atelier

Oggi è un'utopia...
Pensi che mi fece vestire anche la moglie e le figlie. A neanche vent'anni mi mise in primo piano involontariamente, cosa che fece scatenare le ire dei colleghi più grandi. Quel giorno a Villa Torrigiani, al tavolo con lui, avevo una processione di giornalisti e fotografi tutti attorno a me. Ero così emozionato, avevo quasi le lacrime agli occhi. Quel giorno poi arrivò anche la Fallaci, mi fece la mia prima intervista. Poi mi seguì anche a Parigi, diventò un'amica. Che carattere! Quando venne alla mia mostra a New York la televione la intervistò e lei disse su di me delle parole che mi commossero. Spiegò che non tutte potevano portare questi vestiti, ma che il mio lavoro andava rispettato. Mi fece davvero commuovere.

La lezione che sente di aver imparato?
Che le cose proibitive possono essere tanto emozionanti quanto pericolose.

In che senso?
Da quel giorno della mia non sfilata a Firenze decisi di dividere la mia vita privata dal lavoro, dal successo e dalla carriera. Anche nell'accettazione delle critiche. Come quando mi diedero l'Oscar della Moda nel '58 a Boston, per la linea a scatola. Gli americani mi premiarono, mentre in Italia mi dissero delle cattiverie che non ha idea.

Anche la Fallaci?
No, la Fallaci no. Mi fece un'intervista a New York stupenda, emozionante, bellissima. Rimase accanto a me per sei gorni. Le dissero di lasciarmi in pace solo quando andavo a letto. Sa, il giornalismo di una volta.

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Una modella posa con un completo di Roberto Capucci a Milano, nel 1961, circondata da piatti di Fornasetti.

Crede che esista ancora la critica di moda?
Guardi, io le critiche le accetto e le ho sempre accettate. Però oggi la critica non c'è, tutti parlano bene di tutti.

Cos'è volgare per lei oggi?
Quando dissacrano la donna per renderla sexy, volgare. Per me quello non è avere rispetto della donna.

Cosa direbbe oggi a chi al tempo la accusò di aver "imprigionato il corpo della donna in una cassa da morto"?
Nel '58, certo, per il vestito a scatola. La stampa italiana mi criticò, mentre l'America mi diede l'Oscar. Risposi poi quando tornai in Italia, quando mi diedero un premio a Milano. Mi ricordo di esser salito sul palco, di aver ringraziato e di aver poi ricordato al microfono di essere stato massacrato. La sala piombò nel silenzio.

Che senso ha oggi usare l'espressione "alla moda"?
Nessuno. Quando uno è "alla moda" in realtà è già démodé. La moda deve essere una cosa individuale.

Ci sono ancora delle donne eleganti?
Poche, oggi non è più come una volta. C'era uno stile nel vestire pazzesco.

Tuttavia lei mi sembra ottimista.
Certo. Vede, bisogna capire che il mondo è cambiato. Bisogna andare appresso a questo mondo, nel bene e nel male. I ragazzi hanno la facoltà della loro follia. Sono l'ossigeno del futuro. E il futuro appartiene a loro.

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Roberto Capucci con un’assistente e una modella nel suo atelier a Roma, anni 50.

Se lei oggi potesse parlare al Capucci ventenne, cosa gli direbbe?
Guardi, per risponderle le racconto una cosa. Quando uscì la mia terza collezione mi dissero: questo non è Capucci. Mi fece molto bene, e sa perché? Perché fu la più grande lezione che potevano darmi. Mi ero ispirato alla scuola tedesca dei pittori del Quattrocento, ma non ero io. Non avevo ancora raggiunto quella tecnica tale da realizzare una collezione molto trasgressiva ma fatta anche molto bene. Accettai la critica, la studiai a fondo e cambiai. Mi fece benissimo. La più grande lezione di sempre.

Pensa che rispetto al passato oggi la moda dovrebbe impegnarsi attivamente nelle questioni sociali? Penso al tema delle unioni civili.
Certo. Il mondo è cambiato, ci sono dei temi che vanno per forza affrontati. Poi sa, oggi uno deve vestire tutte le donne del mondo. Una volta era diverso. Quindi bisogna sì schierarsi, ma senza esagerare. Perché mischiando troppo e tutto poi non si accontenta nessuno. Ad esempio, in passato mi hanno chiesto diverse volte di associare il mio volto a delle pubblicità, ma non era il mio genere. Sono sessantacinque anni che lavoro, sono davvero tanti. Ne ho viste di tutti i colori.

Anche nel suo atelier?
Mi ricordo ancora il giorno in cui mi presentarono Silvana Mangano. Arrivò accompagnata da Pasolini, per gli abiti di Teorema. Era stupenda. Mi confidò che quando si era vista in Riso amaro si era fatta schifo. Mi disse: «ero troppo, troppo. Voglio essere una donna sofisticata, elegante, intelligente. Oppure smetto di fare cinema». Diventammo amici e io decisi di chiuderla lì con le altre. Non avrei più vestito nessun'altra attrice.

Però ha vestito un Premio Nobel.
Certo, ma non era cinema. Dopo Silvana decisi di non vestire più nessun'altra. Sono rimasto con l'incanto di questa donna che mi ha "rovinato" la vita. Quanto era bella. Quelle mani, quelle gambe. C'è una scena in Teorema, quando si appoggia sul cuscino, straordinaria. Tra l'altro dal mio documentario l'hanno tagliata. Non capisco il perché.

Dicevamo, altre donne ma non nel cinema...
Sì, ho avuto la gioia di vestire nella lirica Raina Kabaivanska per trentacinque anni.

Un matrimonio, in pratica.
Sì, lo disse una volta anche lei. Magra, alta, portava i vestiti in una maniera stupenda. Una grande soddisfazione. E poi nel mondo della scienza Rita Levi Montalcini. Mi ricordo che mi disse: «non indosserò mai un abito con la coda». Io le spiegai che sarebbe stata l'unica donna ad alzarsi in una sala di soli uomini, tutti in frac. Accettò. Quando è mancata aveva quarantasette miei vestiti. Ho realizzato per lei l'ultimo abito quando aveva cent'anni. Dopo il Nobel lei mi è rimasta fedele come un cagnolino. In ogni campo ho vestito personaggi meravigliosi. Penso a Franca Valeri. La vesto da sessant'anni, è come una sorella. Tutte donne di carattere, che mi hanno dato tante soddisfazioni. Oggi però devo stare un po' a riposo, ho voglia di silenzio.

Ma con tutti gli studenti che girano nel suo studio!
Architetti, studenti di moda, scenografi. Ah, loro sono il mio ossigeno.

A questo punto è passata quasi un'ora da quando ci siamo scomodamente seduti su due sedie evidentemente troppo alte per noi. La processione dei saluti si è trasformata in avvisi a intermittenza che ci richiamano a tavola, mentre al buffet non è rimasto quasi più nulla. «Arrivo, arrivo! Ma io mangio poco, lo sai!», dice al suo braccio destro. Poi si volta nuovamente: «ah, lei mangia qualcosa con noi? Su, si accomodi. E grazie, grazie ancora».