Quasi in contrasto con la sua vocazione commerciale (che non ha nulla di negativo, anzi) Pitti Immagine Uomo già da alcuni anni ha un risvolto destinato, verrebbe da dire, quasi alla filosofia, alla speculazione, alle grandi domande dell’esistere. Tipo:

1) Si può insegnare la creatività o no?
Risposta: sì, se però c’è l’hai già dentro, in modo da amplificarla e da scoprire, descrivere ed esplorare “la struttura che connette”, come si esprimeva l’antropologo Gregory Bateson nel saggio Mente e natura, dove parla di ecologia della mente.

Quest’ultimo, un argomento ben presente nel piano di studi del Polimoda, una delle realtà culturali più vive e più interessanti nel panorama dell’istruzione estetica e culturale relativa alla moda e alla sua diffusione. Sede a Firenze, diretta da Danilo Venturi, Polimoda ogni anno vara un fashion show dei suoi studenti e studentesse che hanno terminato i corsi. E sottopone i loro progetti a una giuria internazionale di studiosi, giornalisti, buyer, operatori del settore, anche loro provenienti da ogni parte del mondo. L’altra sera, nella veste di giurati, sentivamo una grande responsabilità nei confronti di chi si affaccia adesso al mondo dell’industria dell’abbigliamento. E tra designer finlandesi, coreani, cinesi, australiani, ha vinto un’italiana, Giunia Guerrera. La sua collezione, assai instragrammabile, deriva proprio dalla profluvio di immagini in cui siamo immersi, come un fiume in piena di cui possiamo raccogliere una goccia, un relitto, addirittura un residuo di spazzatura. E trasformarli in creazioni nuove, se per “nuovo” intendiamo quella rielaborazione vorticosa del passato che è la cifra della contemporaneità: «Le persone accumulano oggetti, che spesso si trasformano in cose inutili. Recuperarle e dare loro nuova vita è alla base della mia estetica», dice la stilista appena premiata, che oppone a strutture dell’abito molto borghesi a stampe di scarti di fotografie digitali, decorazioni da signora che arrivano dalle discariche, abiti molto eleganti che sono reliquie di una storia che ci appartiene. A lei il primo premio, ma la giuria (tra cui c’eravamo anche noi) ha faticato molto a scegliere, a causa dell’altissima qualità - anche tecnica - degli abiti presentati in quella che sarà la nuova sede della scuola, la splendida e austera architettura dell’ex Manifattura Tabacchi, costruita in epoca fascista.

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Courtesy Polimoda
Lo show di Giunia Guerrera, vincitrice del Polimoda Fashion Show 2018.

2) Che posto può avere la spiritualità nella Generazione Z?
Questo è l’interrogativo che si pone Fumito Ganryu, il designer giapponese già assistente di Rei Kawakubo per Comme des Garçons. Ed è una strana combinazione tra street style e ordine cistercense, come se i monaci de Il nome della rosa si mettessero a cantare Young Signorino. Cappe di felpa che si possono chiudere completamente per isolarsi dal mondo, testa e cervello compresi, tute morbide e fluide come sai, giubbotti dalle cadenze sacrali come quelle dei sacerdoti scintoisti. Tutto parla di strada, di vita giovanile frenetica e iperconnessa, ma poi si ritrova attratto nell’orbita di un pensiero profondo, che scavalca addirittura le tematiche di genere (tutti i capi sono unisex) per arrivare alla ricerca di un abito per meditare anche mentre si è nel traffico, in ufficio, sullo skateboard o dietro un cellulare. Un magnifico esordio.

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Courtesy Pitti
Lo show di Fumito Ganryu a Pitti 2018.

3) Come si può far rinascere un marchio dai codici molto riconoscibili, se con quei codici non c’entri nulla?
A Paul Surridge, nuovo direttore creativo di Roberto Cavalli, la scommessa deve essere suonata come un piacevole campanello d’allarme. Surridge, forte di una lunga permanenza in Zegna, si è sempre distinto per un minimalismo accanito, per uno stile sussurrato fatto di dettagli e particolari quasi invisibili, di colori-non-colori: bianco, nero, blu navy. Chiamarlo a dirigere il brand che più di ogni altro ha fatto propria quell’estetica opulenta, ridondante e chiassosa che viene in questi giorni glielo glorificata da Paolo Sorrentino in “Loro”, poteva sembrare un’operazione di alchimia estetica destinata a un’esplosione o al disastro. E invece no.

Sarà stata la location - la meravigliosa Certosa di Firenze, fuori città, dove vive la comunità di San Leolino, sarà stata l’aver abbandonato a tappeti rossi e blu da festa paesana quel coté nazional-popolare che viene di solito associato al marchio Cavalli, ma il risultato è stato al di là di paure e aspettative. In meglio, ovviamente. Dopo una parata di abiti oversize tutti rigorosamente candidi - un chiaro sintomo di un colpo di spugna al passato - arrivano grandi trench e soprabiti con i classici tessuti a stampa tigre, leopardo, zebra. Ma dilavati fino al bianco e nero e usati come fodere. Uno spirito, e questo non è certo uno novità - di sport sartoriale, da gentiluomo dinamico che salta dal suo yacht a una riunione di amministrazione, da una Rolls alla palestra, domina la collezione. Afflitta da una pletora di sneakers aerodinamiche e complesse come capsule spaziali, altro feticcio della modernità e si spera grande successo di vendita.

Ma, e sarà il caso di dirlo una volta per tutte, di “brutte scarpe” bastano quelle di Demna Gvasalia per Balenciaga. E non è detto che i maschi di oggi non abbiano bisogno di mocassini, stringate, stivali. Ma soprattutto, se a un altro brand i fatturati si sono inturgiditi per aver azzeccato un modello di sneakers giusto nel momento giusto, non è detto che questo accada a tutti. Perché la reputazione di una maison deve ripartire con il piede giusto e non puntare solo ai piedi. La strada è stata tracciata, ed è un percorso interessante. Perché non iniziare a camminarci sopra?

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Courtesy Pitti
Paul Surridge, nuovo direttore creativo di Roberto Cavalli.