Da Marni sedersi è un’impresa. Invece di panche, sedie o gradoni, il marchio disegnato da Francesco Risso sceglie di costipare nel garage della Torre Velasca - uno spazio snobisticamente scelto perché marginale rispetto al palazzo che lo sovrasta - le “Bouncing Balls” dalla malferma maniglia su cui saltavamo da bambini, instabilissime da tenere ferme. Da Prada lo spazio di via Fogazzaro è costellato di cubi in plastica gonfiabile, trasparenti come cubi di ghiaccio: repliche dei pouf di Verner Panton del 1960, perfette per un certo spirito psichedelico di cui è blandamente spolverata la collezione, ma decisamente poco confortevoli.

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La sfilata di Marni Uomo disegnata da Francesco Risso.
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La sfilata Prada.

La metafora è lì, pronta pronta per essere colta: viviamo tempi scomodi, dove perfino il riposo richiede attenzione, sguardo vigile e polpacci ben equilibrati, in guardinga sintonia tra istinto e cervello. Una condizione, quella della disagevolezza, che accompagna come un basso continuo tutte le (poche) collezioni viste in questi tre giorni di moda uomo per la primavera-estate 2019. Del resto, viviamo in un mondo, in un Paese, in un pianeta che ci offre certezze? Pochi i momenti di emozione, tra prevedibili omaggi ai soliti Alessandro Michele e ancor più a Demna Gvasalia, direttore artistico dell’ormai mitica linea Vetements con note di sportswear sofisticato e apocalittico, ma più ammansite, addomesticate, rabbonite e dunque sostanzialmente inutili.

Archiviato il concetto del lusso come ciò che costa di più (anche se i prezzi saranno vertiginosi), s’incrina anche la leggenda dell’abito come seconda casa coccolosa e tenera, tutta felpe, pantaloni da jogging e sneakers a pioggia come se non ci fosse un domani. L’ossessione per il consumatore Millennial viene sostituita dall’ossessione per Generazione Z: gli adolescenti, cioè, non più i trentenni.

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La sfilata di Neil Barrett.
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La sfilata Ermenegildo Zegna disegnata da Alessandro Sartori.

Il dato diffuso in questi giorni che chi appartiene a questa fascia temporale sia abituato a vivere in condizioni economiche non paragonabili a quelle di un coetaneo negli anni Ottanta, cui unire una certa angoscia per il futuro, per l'ambiente, per il perpetuarsi della vita stessa, porta lo stile a realizzarsi su forme che sono altrettanto transitorie e altalenanti. Così, se da Dolce & Gabbana (foto in alto), viene reso noto che i plutocrati giovanissimi cercano il cuore dell’estetica del duo, impegnato in un tour de force compilativo di più di trent’anni di carriera.

Da Miuccia Prada spira un vento normalizzatore che fa uso di uno styling come sempre scompigliato e confuso per far passare il messaggio di un vestire che, oltre agli shorts come minigonne da uomo, oltre ai cappelli imbottiti da inverno polare, oltre alle magliette con fantasie fiorate da tovaglietta cerata di un tempo, forse è il caso di tornare a giacche ben tagliate, jeans diritti con cintura inserita, cappotti – d’estate? Ma certo! – cammello, pullover con trecce. Francesco Risso per Marni irride la mitologia dell’abbigliamento atletico di lusso, presentandone una parodia, tra stampati decontestualizzati, imbottiture nei posti sbagliati, uniformi olimpioniche in lana infeltrita, come a indossarli siano ccampioni, sì. Ma dell’assurdo.

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La sfilata di Giorgio Armani.
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La sfilata M1992 disegnata da Dorian Stefano Tarantini.

Situata a metà tra il territorio dello stereotipo sartoriale e della sua decostruzione sono anche Ermenegildo Zegna e Giorgio Armani: nel primo caso, Alessandro Sartori salva dall’overbooking di noia una collezione che è trasformabile, duttile, intellettualmente elastica, tra completi che somigliano a quelli pratici “street” ma in realtà non lo sono per niente. Nel secondo caso, il concentrarsi su contorni netti e definiti di una silhouette asciutta si focalizza sul gilet, elemento poco studiato, in generale, e sul doppiopetto a cui viene sottratto ogni dettaglio per restituirne l’esoscheletro.

Ed è interessante come un vero giovane come Dorian Stefano Tarantini che disegna una linea che cita la sua data di nascita, M1992, ricerchi una distopica attenzione alla sartorialità nell’ispirazione a un surfista che solca su onde di petrolio, assumendo l’inquinamento come musa di armoniose giacche e pantaloni sproporzionati, ma di fattura impeccabile.

È proprio una terra di mezzo, quella in cui si trova l’uomo di oggi, incerto e indeciso sulla propria virilità ai tempi del #MeToo e del #TimesUp ma non così sprovveduta da rifugiarsi in una narcisistica omofilia. «Forse è il caso di stabilire nuove regole, inizio a voler andare oltre la funzionalità, è tempo di una nuova, moderna eleganza», dice Alessandro Dell’Acqua che con la collezione per N°21 firma uno dei momenti più interessanti della sua carriera: abiti sghembi, uno spirito amaramente ironico nei trench in PVC, uno sgarro alla tradizione nelle camicie perfette ma a cui sono strappate le maniche.

Un’ambiguità, una doppiezza di fondo che unisce e fa dialogare forma, funzione e apparenza in una strana conversazione che culmina nell’uomo enigmatico ed enigmistico di Fendi. L’allestimento di Nico Vascellari – artista compagno di Delfina Delettrez, figlia di Silvia Venturini Fendi che disegna la linea uomo -, gioca con le parole. E “Fendi” diventa “Fiend” (“demone”), “Roma” diventa “Amor”, gi abiti da amministratore delegato pesano come una piuma, la pelle è talmente traforata fa essere pura membrana visiva.

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La sfilata di Fendi.
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La sfilata N°21 disegnata da Alessandro Dell’Acqua.
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La sfilata di Sunnei.

Né ottimista, né pessimista, l’uomo previsto dai designer è inquieto, tormentato, assediato dalla tecnologia come in Black Mirror (le t-shirt con l’iPhone specchiato di Simone Rizzo e Loris Messina per Sunnei) o intossicato da certe memorie da incubo come in Stranger Things o Matrix (Francesco Ragazzi per Palm Angels). Post-femminista, post-industriale, post-sessuale, post-moderno, post-tutto, sfugge a un destino vestimentario ricamato di agitazioni nell’oasi di Etro.

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La sfilata di Palm Angels disegnata da Francesco Ragazzi.
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La presentazione di Etro.

Quella di Kean Etro è la più bella installazione vista in 72 ore di giravolte modaiole: un labirinto formato da piante provenienti da tutto il mondo dove modelli e opere d’arte, infusi di magici erboristi e rassicuranti richiami alle culture primigenie di ogni dove, dagli obi giapponesi ad applicazioni indonesiane s’insinuano nella cultura occidentale. E depongono uova fatali in un immaginario nido di un drago. Forse, davvero, il nuovo lusso sarà permettersi di sognare un luogo pacifico e ricco di felici contraddizioni come, un tempo, doveva essere il piccolo pianeta su cui, casualmente, ma non casual, ci troviamo a vivere. Con un abbigliamento a cui, se vi va, potremmo donare un aggettivo fresco di conio: sclassico.