«Io vesto italiano, ma evito di dire il marchio altrimenti mi indagano per pubblicità occulta. Sono liberista, ma sono stufo che i migliori marchi della moda, dell'alimentazione, della tecnologia italiana vengano comprati all'estero». Così il vicepremier Matteo Salvini commenta la notizia della vendita di Versace per 2,12 miliardi di dollari a Michael Kors, che per l'occasione ha cambiato il nome del suo impero economico (oltre al suo marchio, comprende anche Jimmy Choo) nel più vezzoso Capri Holding.

La famiglia Versace avrà un quota della nuova holding, segno di continuità con il passato della sua azienda e Donatella, almeno per ora, continuerà a esserne il direttore creativo. E fioccano i commenti su una nazione, la nostra, che si svende e si disperde,dove tra un po' i cinesi compreranno anche Venezia e Firenze l'acquisiranno i francesi.

Come se fosse colpa di un imprenditore privato, ovvero Donatella Versace, suo fratello Santo e sua figlia Allegra, che era stata nominata erede universale da zio Gianni, che fondò il marchio 40 anni fa e nel 97 venne assassinato, non poter decidere delle sorti della propria azienda.

Sarò cinico e molto laico, ma quando sento commenti del tipo: «ci stanno rubando tutto», «di italiano non ci rimane più nulla», mi arrabbio moltissimo. Sembra che improvvisamente politici e intellettuali scoprano la grande ricchezza rappresentata dall'industria della moda, che è prima di tutto un business destinato a produrre soldi. E, onestamente, casa Versace di profitti – anche se molto buoni – non ne stava collezionando vertiginose quantità.

Personalmente trovo molto fastidioso questa sorta di patriottismo postumo, di amore per la propria terra quando è ormai troppo tardi per intervenire. Sembra scontato che monumenti, paesaggi, industrie, manifatture, palazzi e costruzioni facciano parte di un italico panorama così cristallizzato da sembrare un presepe napoletano.

Non riesco a rattristarmi per la decisione presa dai Versace in primis, e cioè vendere a un fondo. Mi rattristerebbe sapere che, per esempio, non sia garantito dallo stato italiano che i dipendenti restino al loro posto, che verranno pagati come prima se non di più, che la produzione resti imprescindibilmente entro i nostri confini.

Se questa a molti sembra una sconfitta - ed economicamente non lo è, perché oltre due miliardi di dollari non è una cifra contenuta - che la si intepreti nel giusto modo. È la sconfitta del sistema Italia che non sa o non vuole trattenere le proprie eccellenze, nella moda e non solo, per poi stracciarsi le vesti griffate quando sono proprio le eccellenze a decidere di spostare le proprie radici altrove.

Anni fa,quando intervistai Santo Versace, gli chiesi perché con la sua azienda non avesse fatto realizzato nulla per la città di Milano,alla pari di Prada o di Armani. La risposta, lapidaria, fu: «Perché, questa città o il governo italiano hanno mai fatto qualcosa per noi, quando siamo arrivati da Reggio Calabria contando solo sulle nostre forze?». Sono rimasto zitto. E sarebbe anche giusto che un po' di sano silenzio fosse l'unico commento agli eventi di questi giorni. C'è ancora tempo per salvaguardare il Made in Italy. Poco, ma c'è. E chiedersi come mai, in Italia, non si riesca a fondare una multinazionale del lusso così come sono nate in Francia, in America, in Cina. I soldi ci sono. La volontà no. E allora non ci stupiamo e non ci scandalizziamo più. Per favore.