Quello di Tadashi Yanai è un nome che dice poco al consumatore europeo. Ma è anche il nome del fondatore e ceo di Fast Retailing, il colosso che possiede il marchio Uniqlo. Il che lo rende l’uomo più ricco del Giappone.

Occhiali spessi, capelli brizzolati, e Swatch d'ordinanza il fondatore di Uniqlo è uno di quegli uomini ricchi che non ama ostentare il proprio denaro, nonostante il suo patrimonio sia stimato intorno ai 9 miliardi di dollari.

Un successo costruito grazie alla combinazione vincente fast fashion e no-logo, ma non solo. “Il prezzo competitivo è il requisito minimo per soddisfare le esigenze dei clienti”, afferma Yanai. “Ma da solo non basta a rendere un business un vero successo. Prima di parlare di prodotti o prezzi, dobbiamo raccontare la nostra filosofia e i nostri valori”.

FASHION-JAPAN-UNIQLOpinterest
KAZUHIRO NOGI//Getty Images

Valori che di fatto incontrano il bisogno di una generazione stanca di vedere il proprio corpo usato come un cartellone pubblicitario, e che vede il no-logo come nuova tendenza. Almeno all’inizio degli anni 2000, mentre oggi le collezioni viste sulle passerelle di New York, Londra, Milano e Parigi dicono tutt’altro.

Ma anche il no-logo può diventare logo, o almeno status-symbol, e Muji insieme a Uniqlo ne sono la prova provata.

Eppure era questo desiderio di anonimato il sentimento che regnava in Giappone nel 1984, quando la storia di Uniqlo inizia con un piccolo negozio a Hiroshima per poi espandersi nel Paese e nel mondo fino agli attuali 1600 negozi in sedici diversi mercati.

Una proposta semplice, di abbigliamento accessibile sia in termini di stile che di prezzo, che in realtà nasconde un meccanismo più complesso. Se l’intuizione di aprire un negozio di abbigliamento a prezzo contenuto arriva durante una visita di Yanai negli Usa, osservando gli studenti comprare abbigliamento casual nelle cooperative lasciandolo cadere in un cestino per poi portarlo al bancone della cassa, la scelta di esternalizzare la produzione in Cina ha una gestione problematica.

Anzitutto, servono supervisori della qualità da inviare nelle fabbriche, poi un gruppo di progettazione a New York pensato per raccogliere informazioni sulle tendenze. Un tentativo fallito, la reintegrazione del reparto di ricerca e sviluppo a Tokyo, modelli basici per ottenere il massimo della qualità al minor prezzo e una gamma di colori molto ampia per sopperire alla scarsità di modelli sono i primi passi che porteranno al successo di Uniqlo, alla fine degli anni ’90.

Tadashi Yanai Japan's Largest Clothing Retailerpinterest
Koichi Kamoshida//Getty Images

Un percorso che procede per errori e tentativi che riflette la ferma convinzione di Yanai, secondo cui le persone di successo inevitabilmente commettono errori e quindi imparano da essi (un concetto spiegato diffusamente nella sua autobiografia, One Win and Nine Losses, pubblicata nel 2003).

La fascinazione di Yanai per il fallimento, affrontato sempre in maniera pragmatica, si legge nella storia di Uniqlo all'estero: cinque anni dopo i primi tentativi di espansione nel 2001, con 21 negozi nei sobborghi residenziali in Inghilterra e tre nei centri commerciali del New Jersey, Uniqlo si ritirò da questo mercato, chiudendoli quasi tutti.

"Semplicemente, non hanno funzionato" dice con disarmante trasparenza Shin Odake, CEO di Uniqlo USA. Un errore da cui nasce la controstrategia: nel 2005 l'azienda annuncia che sarebbero rimasti i negozi suburbani in Giappone, ma la crescita all'estero si sarebbe concentrata in negozi appariscenti, aperti nelle principali città di ogni continente. A partire dal negozio Uniqlo di New York.

Nel 2010 Tadashi Yanai, a New York per ricevere l’International Retailer of the Year dalla National Retail Federation, parla apertamente della sua ambizione di superare la spagnola Inditex, che possiede Zara, e rilascia un’intervista al New York Magazine in cui racconta come all’interno dei negozi Uniqlo tutto sia prescritto, registrato e analizzato.

Da come si piegano le t-shirt al modo di restituire al cliente la sua carta di credito, tutto è prestabilito, in una rigida codificazione delle norme di comportamento che ricorda il kaizen, il concetto giapponese che si traduce approssimativamente come continua ricerca della perfezione.

Un esempio? Le frasi standard che gli addetti alle vendite sono invitati a utilizzare durante l’orario di lavoro: Ciao, mi chiamo …, come stai oggi? Hai trovato tutto quello che stavi cercando? Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa, mi chiamo... Grazie per l'attesa, hai trovato tutto quello che stavi cercando? Ciao, speriamo di rivederti presto.

Per molti giapponesi, il successo di Uniqlo all'estero è poco comprensibile: dal 2000, quando Uniqlo ha raggiunto l’apice del successo, la sua estrema diffusione ha portato a un cambio di rotta, tanto che ora indossare Uniqlo è motivo di derisione (c’è addirittura un termine apposta, Unibore).

Ma questo non sembra preoccupare il team di Uniqlo, che si prefigge di arrivare al 2020 con 50 miliardi di dollari di vendite e dieci miliardi di dollari di profitti.

E l'apertura di Uniqlo a Milano è parte del piano.

DaELLE Decor IT