Julia Roberts fiera in t-shirt con scritto Vote non è solo il #sorrisodijuliaroberts. Kerry Washington con sticker d’ordinanza I voted non è solo un ricordo di lei nella stanza ovale in Scandal. Le t-shirt di protesta, i patch di avvenuta votazione non sono una trovata commerciale che si esaurisce con la fine delle Midterms 2018. Vanessa Friedman sul New York Times è molto conscia del movimento che si sta portando da un do it yourself per l’occasione elettorale a un mercato concreto e costante degli abiti come (s)oggetti impegnati politicamente. “Non si tratta solo di aziende che invitano i consumatori a seguire delle scelte civiche o stili di vita (...): questo è un rifiuto alla premessa che la moda marci solo per la politica attuale. Questa è una nuova proposta: i vestiti sono un’espressione di valori da indossare sempre, ovunque”. In qualunque spiraglio politico? L’osservazione sul cambiamento del rapporto politica-moda non si frena alle scelte sconsiderate di una giacca indossata da Melania Trump con una scritta letta come vessatoria nei confronti dei migranti messicani. Il tempo dei colpi virali è finito: la progettualità con la quale la moda si interessa alla politica è il presente/futuro. Sempre la Friedman sottolinea come una delle t-shirt più politicamente esposte delle MidTerms 2018 sia stata creata da Tory Burch, quattro lettere limpide a 70 dollari. Un messaggio “VOTE” che dura tutto il tempo necessario: ovvero sempre.

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Vi è anche il caso più radical della sorella di Zac Posen, Alexandra, che in accordo con Dahna Goldstein, 44enne madre e impegnata politicamente, ha fondato una compagnia, la Resistance by Design, dove si fa spazio una sciarpa in seta con rappresentate tutte le candidate donne democratiche in corsa per le Midterms. In Italia l’unica t-shirt che ha fatto discutere negli ultimi anni è stata t-shirt nera con scritta Auschwitzland. Qualcosa non torna. Nella cultura statunitense, va detto, c'è meno becero sarcasmo e un simbolismo, che, invece torna sempre. E che la moda sorregge, per quanto possibile, con scelte sempre radicali quanto quotidiane.

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La sciarpa in seta creata da Resistance by Design in vendita a 125 dollari su resistancebydesign.com



Una t-shirt come quella di Diane Vote Furstenberg, ricorda sempre la penna del NYT, è qualcosa che non finisce con le Midterms 2018. È un espressivo uso della parola vote senza paure e remore. È pop, è attuale, è eterno. Ci sono brand meno esposti sul mercato mainstream e più su Instagram, come Lingua Franca NYC che ha realizzato un maglione di cashmere a 380 dollari (100 di questi andranno in beneficenza all’ente League of Women Voters): è un cashmerino da weekend che porta la scelta Power to the Polls (tra le altre scritte) in delicato filo porpora. La moda non urla politica, la veste con la costanza di un movimento che ha portato le sneakers al pari delle décolletées. Costanza, ricerca, differenziazione del mercato: essere politicamente vestiti secondo i propri istinti.

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Il maglione di Lingua Franca NYC in vendita da 380 dollari su linguafranca.nyc

“La saggezza convenzionale ha imposto a lungo che i marchi non dovrebbero mai mostrare la propria affiliazione al partito, per timore di allontanare una miriade di potenziali consumatori. Se volevi scoprire in cosa credevano i designer, dovevi cercare nei registri fiscali e scoprire a chi andavano le loro donazioni. Ora vai nei negozi (…). Parte di questo ha a che fare con i social media: poiché l'immaginario visivo è diventato un mezzo di comunicazione di massa, ciò che indossi diventa un segnale ancora più importante di identità e valori” ribadisce Vanessa Friedman a poche ore dall’ondata di celebs che dichiarano votazioni e umori. La cassa di risonanza maggiore è certamente l’America trumpista con urgenza comunicativa iniziata dalla March delle donne contro il sessismo (e richiamo mediatico a Cannes 2018), con cappelli rosa e guance dipinte, ma è un caso che arriva direttamente a toccare anche le scelte di brand indossati da figure politiche apparentemente non coinvolte in cicloni mediatici e politici. In Nicaragua, per protestare contro la riforma sulla previdenza sociale da parte del regime di Ortega, si è tornati a indossare il rossetto rosso con un intento differente dal suo uso quotidiano: ci ha pensato Marlen Chow, 68enne che ha usato lo strumento più comune e a disposizione di più donne per età e possibilità economiche.

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La t-shirt di Diane Von Furstenberg in vendita a 125 dollari su dvf.com



In climi apparentemente più tranquilli come la Londra del Central Saint Martin il fatto che l’ultimo saluto di Christopher Bailey sia stato con un lungo omaggio on show della bandiera arcobaleno è l’esempio di come la moda e la politica abbiano imparato a parlarsi anche lontano dalle cabine elettorali. Ma forse c’è un motivo, che non pertiene alla sola presidenza Trump, se è sempre dagli States che arrivano quei capi che vivono su Ebay ben oltre le Midterms di turno: “gli abiti di carta della fine degli anni 60, che altro non erano se non poster praticamente indossabili, per Richard Nixon e Hubert Humphrey, erano senza marchio” ricorda Vanessa Friedman, si usava il corpo per fare passare un messaggio. Perché la politica si impone, la moda si ingegna.