Soffia (di nuovo) un vento gelido dalla Russia. Non sta succedendo sulle passerelle, almeno non per adesso. L'impero colpisce ancora, ma per il momento si limita a spadroneggiare nelle newsfeed di Instagram, l'universo alternativo digitale prediletto dalla moda.

Nuovi brand, nati nel tempo strettamente necessario a creare un account sulla piattaforma di Mark Zuckerberg, arrivano dalle steppe, o dai paesi che facevano da satelliti alla deposta Unione Sovietica, e rapiscono chi ne scorre le foto con una narrazione onirica. La loro magia, a ben vedere, è aumentata dal sapiente uso dei filtri e da una conoscenza seppur sommaria di una certa mitologia letteraria e cinematografica, da Lev Tolstoj a Virginia Woolf nello spazio di uno scatto. In comune con i loro predecessori ormai famosi, Gosha Rubchinskiy e Demna Gvasalia hanno solo la provenienza geografica. A dividerli, tutto il resto.

L'Anno della prima invasione post-sovietica è stato infatti il 2015. Dodici mesi prima si era costituito Vetements, collettivo di circa 8 designer di cui non si conoscevano le identità. Una scelta, quella dell'anonimato, non dettata da un riottoso attivismo sociale in stile Anonymous – anche se le felpe di Elliot, il Rami Malek hacker di Mr. Robot, sarebbero assai piaciute alle menti creative dietro il marchio – ma da squisite necessità legali. Essendo già assunti negli uffici stile di famose case di moda, da Maison Margiela in poi, non avrebbero potuto ufficialmente prestare i loro servizi altrove. Racconterà poi Demna Gvasalia, il georgiano oggi direttore creativo di Balenciaga ed unico del collettivo ad essere uscito allo scoperto, che la nascita di quel progetto fu dovuta ad un senso di comune frustrazione, una risposta al malcontento professionale che ognuno di loro provava nel dover accontentare le sempre più stravaganti richieste dei direttori creativi. “La moda non deve far sognare, ma produrre abiti e accessori che la gente voglia indossare”, raccontava nel 2015 al The Independent, dimostrandosi più realista del Re. Un'affermazione che sembra la variante concettuale degli slogan di certi teleimbonitori italici degli Anni 90, e che conquistò giornalisti di settore prima, e mercati poi. Nacque così quell'estetica che mischiava normcore di ritorno dagli Anni 90 – sempre loro – a suggestioni da ex Urss. Felpe oversize, jeans a vita alta, piumini dai volumi bombastici e total look tri-acetati, buoni per lui e per lei, ça va sans dire, font e stampe che sembrano rubati ad una fan page dei Metallica. La fascinazione è subitanea: influencer e gente comune, uniti dal desiderio democratico di voler adottare in total look questa estetica da banlieue, forse brutta, ma atta ad assolvere alle necessità quotidiane, e quindi intrinsecamente giusta.

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La prima presentazione è organizzata alla bell'e meglio, nella sua camera da letto a Parigi, “quella dove abbiamo passato notti a mettere insieme ogni pezzo, anche se non pensavamo ad un progetto commerciale, lavorando tutti per altri marchi”. Un candore che manda in sollucchero anche il più cinico dei fashion editor, e che si trasforma però presto, in una macchina della quale il fratello di Demna, Guram - oggi CEO del marchio - intuisce subito le potenzialità. Collaborazioni da DHL a Champions, la nomina di Demna a creativo di Balenciaga - maison che sui volumi studiati al millimetro ha costruito un concetto di eleganza tutto suo – il successo delle sneakers calzino copiate da tutti, brand blasonati e concorrenti più modesti del fast fashion, il plauso anche dall'altra parte della Cortina di Ferro con Kanye West tra i primi fan. A non essere esattamente ispirati ai precetti de Il Capitale di Marx sono i prezzi, poco democratici, ma la rivoluzione degli armadi necessita di un prezzo da pagare. E molti, ad onor del vero, sono disposti a farlo.

La parabola di Gosha Rubchinskiy è più o meno simile: curriculum impreziosito dalla militanza da Comme des Garçons, marchio tra i primi sul finale degli Anni 80 a sperimentare sugli abiti il concetto architettonico del decostruttivismo – con la sua fondatrice Rei Kawakubo riconosciuta come Madre del movimento - la sua filosofia estetica è assai affine a quella di Gvasalia. A rendere personale e riconoscibile la sua visione, l'approccio multimediale alle presentazioni - mai semplici sfilate, ma anche film e libri fotografici a corredo - e i caratteri dell'alfabeto cirillico che si stampano sulle maniche delle felpe. Il casting degli show del marchio che porta il suo nome sono rigorosamente street, nel nome dell'aderenza ad una realtà nella quale si identifica, quella dei “cool kids of Paris” e della skater culture d'Oltremanica.

Nel 2019, quella visione è diventata ormai dato di fatto, a cui è impossibile sfuggire, ma che molti cercano, con esiti differenti, di imitare (da Volchok a Sputnik 1985 passando per Mech e Syndicate, tutti uniti da una onomastica che sembra guardare ai satelliti lanciati dal cosmodromo di Baikonur).

Tutti, ma non molti. E proprio tra i loro connazionali, Demna e Gosha, designer oggi insigniti di premi e riconoscimenti, trovano chi, tramite Instagram, propone un'immagine ugualmente nostalgica, ma per molti versi dal lato opposto dello spettro stilistico. Laddove la praticità di stampo brutalista dei due proponeva “non sogni, ma solide realtà”, l'account IG di My812 abbonda di suggestioni sospirose e atmosfere sognanti. Vestiti in seta eterea e trasparente; cappotti oversize, certo, ma assai eleganti se appoggiati sulle spalle in qualche biblioteca parigina dagli arredi déco – le periferie qui non appaiono mai – abiti dalle stampe floreali che sembrano fatti per essere indossati da Florence Welch o da una qualunque delle protagoniste dei romanzi di Jane Austen. Un concetto di femminilità che scava nella memoria, ma è pronto ad essere spedito in velocità in tutto il mondo.

Un discorso simile vale per Nebo, fondato dalla designer e it girl russa Olesya Shipovskaya: dagli Anni 80 tornano le spalle definite nei blazer, da indossare con maglioni a collo alto dai volumi morbidi. Le sue bonnes filles corrono per le praterie assolate di Instagram, indossando slip dress in seta che lasciano nuda la schiena, in scatti che sembrano rubati ad un film di Terrence Malick, dove realtà e ricordi si confondono in un'atmosfera di costante melancolia. Il concetto piace assai in patria, dove le creazioni sono già negli editoriali delle riviste patinate da Vogue a Harper's Bazaar.

Sandra Mansour arriva da Beirut ma la sua collezione per l'estate che verrà sembra il perfetto guardaroba per un ballo nel salotto dei Rostov, famiglia protagonista di Guerra e Pace. La contemporaneità è nei vestiti in tulle trasparente dalle cromie neutrali, che coprono la pelle solo grazie ad un intricato gioco di ricami, strascichi in pizzo candido e gonne a balze in seta mikado.

Da Batsheva le istanze si fanno quelle di un nuovo femminismo – almeno a leggere la bio sul sito. Decorazioni e ammennicoli spesso assimilati alla costrizione della condizione della donna, colletti plissettati di stampo vittoriano o maniche a sbuffo in stile Casa della Prateria trovano nuova espressione e libertà in un armadio che gioca con le epoche, ed è già addosso a Coco Rocha, Lou Dillon e Sarah Jessica Parker.

I russi stanno preparandosi al secondo tempo? Troppo presto per dirlo, e giudicare il successo di un brand dal suo profilo Instagram è un peccato di ingenuità, ma certo è che la storia d'amore tra la stampa di settore e Demna sembra attraversare una fase di stanca. Se la sua posizione da Balenciaga è solida – le basi del 34enne georgiano sono quelle del professionista, con gli studi a quel Royal Academy of Fine Arts di Antwerp dal quale sono usciti Dries Van Noten e Ann Demeulemeester – le recensioni sull'ultima sfilata di Vetements si sono un po' raffreddate negli entusiasmi. Dal New York Times al Bof si parla di “ripetizioni e loop che stanno perdendo appeal”. Maneggiare il controverso vocabolario del “brutto” è un'arma a doppio taglio, se non si possiede l'universo di riferimenti culturali e artistici dei maestri del genere, da Miuccia Prada a Rick Owens. Certo, fin quando i registratori di cassa continuano a suonare, l'opinione degli esperti è più una questione di immagine che di sostanza.

Dall'altra parte, quell'idea di femminilità raffinata e distante, cerebrale eppure seducente, è orfana della sua sacerdotessa, Phoebe Philo - sostituita da Celine con Hedi Slimane, che ha tolto al marchio l'accento e qualunque pretesa intellettuale. Le sue accolite, le inconsolabili Philophiles, ultimamente si ritrovano proprio su Instagram, dove l'account Old Céline – archivio nostalgico dei bei tempi andati – è considerato un vero bene di rifugio. – Chissà cosa accadrebbe, se inciampassero nei doppiopetto oversize di Nebo?