Prosopon. Scritto così o quasi, se la distanza temporale dal liceo classico non ci inganna. Era il nome della maschera nel teatro greco, strumento indispensabile per amplificare la voce ma ancor più per accentuare la fisionomia del volto e dare all’attore che la indossava un carattere definito, riconoscibile anche dagli spalti più lontani dal palcoscenico. Annullando l’individualità di chi la portava, permetteva agli attori di avvicendarsi ma di mantenere ben stabile la natura del personaggio.

Una maschera neutrale è l’invito alla sfilata di Gucci, come sempre un primo passo per far entrare gli invitati dentro una specifica atmosfera: in questo caso, tra giochi di luce e specchi che confondevano piani spaziali e frammentavano le immagini, molte erano le modelle e i modelli che, nel buio solcato da fasci di luce che bruciavano la retina, portavano sul loro volto una maschera, appunto.

Ma Alessandro Michele, in una delle sue collezioni più singolari e politiche create per il brand, non intende né mettere in scena una mascherata, né tantomeno esaltare un carnevale. A meno che non alludesse a quella che il grande sociologo Zygmunt Bauman definì “Carnival Solidarity”, a proposito della società attuale: una falsa solidarietà che nasce tra governi e persone le quali, come nel carnevale, per quattro o cinque giorni fuoriescono dall’ordine prestabilito. E tutto finisce tutto lì.

Quelle che hanno in faccia le creature in passerelle non sono maschere tragiche o comiche: somigliano a quelle che ha Jason Voorhee, lo psicopatico assassino di Venerdì 13, alle museruole di Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti, ai volti trafitti da spunzoni di Hellraiser, al coprivolto di Alexander, il protagonista di Arancia meccanica quando stupra una delle sue vittime.

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Salvatore Dragone/IMAXTREE//Getty Images

Poco importa se verranno più o meno messe in commercio. Servono a deliberare una sensazione di inquietudine e paura, visto che sono accostate a collari punk sadomaso irti di punte o spunzoni (che invece saranno messi in produzione).

Finalmente uscito da un torneo di ripetizioni infinite, Michele ci prospetta un futuro dove la maschera si rivela per quello che è e per quello che non è: protezione o copertura, riparo o minaccia, filtro o chiusura. E la silhouette che impone agli abiti - un mix tra le rigide strutture anatomiche degli anni 40 e quelle degli anni 80, come un’inesorabile “T” - accentua la percezione di un mondo dove potremmo essere noi a dover usare quella maschera per difenderci o invece potrebbe guardarci dal volto di qualcuno (un terrorista? Un killer? Un kamikaze?) che vuole farci del male.

Come sempre eccezionale nel restituire un sentimento di un’epoca, Michele esprime la paura di un mondo attanagliato dalle minacce di ogni tipo come il desiderio di sentirci al sicuro. È ovvio che, una volta smembrati gli outfit, si troveranno capi raffinatissimi, relativamente portabili e assolutamente desiderabili perché comunque la moda deve produrre qualcosa che vorremo anche senza averne bisogno, ma l’impatto è fortissimo.

C’è una percezione di mortifera eleganza che porta a pensare che, quando arriverà la catastrofe, non ci risparmierà, ma ci troverà vestiti benissimo, con giacche sartoriali ancora non finite perché è scoppiata l’atomica o incongrui boa di finta pelliccia recuperati da uno spettacolo di varietà scadente.

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È lo stesso lessico emotivo a dispiegarsi nella collezione di Prada, che riannoda la sua ispirazione alla sfilata maschile dello scorso gennaio. Mostri e freaks, Frankenstein e sua moglie, sono i numi tutelari di un’estetica che gioca con il passato come fosse un deposito di errori e di orrori, e proprio per questo ci attrae e ci respinge (ed è nell’attrazione-repulsione che nasce la stranezza fascinosa): le modelle sono pettinate come Mercoledì della Famiglia Addams, il pizzo è usato in modo strambo per cappottini insensati, gli zaini e le borse in pelouche sono tanto assurdi da volerli subitissimo.

Al contrario, appare consolatorio che le collezioni più felici – in senso letterale – appartengano a due grandi maestri, ormai residuati a uno solo: Fendi ed Emporio Armani. Karl Lagerfeld rivive per pochissimi minuti in un video alla fine della sfilata ed è come se fosse davanti a noi a schizzare il modo in cui era vestito quando si presentò dalle Fendi nel 1965 («un mauvais genre», un tipo non raccomandabile). La sfilata è un festival di leggiadria dove gli abiti da sera sono di velo impalpabile foderati di seta a pois, le gonne danzano, le giacche dondolano.

Ci sono citazioni (il colletto alto della camicia bianca, i fiocchi rigidi, le giacche smilze e lunghe) di come era vestito proprio lo stilista tedesco: un gioco di styling, certo, ma anche la testimonianza di come sia entrato a far parte del panorama della cultura pop.

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Emporio Armani si accende toni infiammabili e caldi – arancio, rosso, fucsia – a dare il la sembra essere il movimento, l’andatura veloce che somiglia a un ballo. La colonna sonora è quella di una discoteca nostalgica, ma non c’è uno sguardo retroattivo negli abiti corti e luccicanti di paillettes, nelle giacchine svelte, nei miniabiti che si accordano agli stivali alti, in un inno alla gioia di vivere che proviene da un signore che, in un certo senso, il Made in Italy l’ha fondato.

Anche da Max Mara, marchio da sempre connesso a una clientela trasversale per geografie ed età, si respira un’aria ottimista, colorata, che accelera il passo nelle minigonne dove le gambe si confondono con gli stivali in una silhouette monocromatica di grande effetto. Ma è inevitabile ritornare alla politica, visto che un cappotto del brand è stato scelto dalla democratica Nancy Pelosi quando è stata invita nello studio Ovale da Donald Trump in qualità di speaker della House of Representatives, passata dopo le elezioni di midterm proprio ai democratici. Forse non tutto è perduto, diamo ancora un’opportunità al piacere.

E in questi giorni, troppo pochi per essere definiti una Fashion Week, ci piace ricordare anche l’incisiva collezione di Alessandro Dell’Acqua per N°21: un ritorno alle origini dello stilista e alla sua musa di sempre, la benestante sgangherata. C’è tutto un gioco sul retro dei suoi vestiti, zip calate troppo giù, scollature inaspettate, un modo di portare i cappotti non riproducibile nella quotidianità (sono abbottonati male per rivelare porzioni di spalle nude) che, dopo averlo dato per smarrito, riporta all’attenzione dell’estetica globale il concetto di sensualità, non di sexy.

Riproporre i suoi classici vestiti di tulle montati sul tessuto color nudo, per lo stilista è un elogio a una grazia sorniona di una donna che sa il fatto suo, uno stuzzicante esercizio di stile per ritrovare un fascino che ha un genere e un sesso, e ne va pure fiero. Con una traccia di riso e uno strascichetto che svolazza nel vento.

E la speranza che forse, un giorno, di paure non ne avremo più.

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