C'è differenza tra fare rumore e farsi sentire. Probabilmente, nell'epoca dei social media che impongono di urlare la propria esistenza, vomitandola in un'infinita newsfeed – dove sei, con chi vai, cosa mangi, dove vai in vacanza – la scelta di parlare solo quando si ha qualcosa da dire, può sembrare rétro. Clare Waight Keller designer di Givenchy, in effetti, ha sempre lasciato che fosse il suo lavoro a parlare per lei: un lavoro, quello della creativa inglese, che oggi, a vent'anni dall'inizio della sua carriera, le viene riconosciuto dal Time, che l'ha inserita tra le 100 persone più influenti al mondo. A tesserne le lodi, tra le pagine del giornale, è Julianne Moore. Nel profilo, sintetico – perché la bravura si spiega in fretta, mentre per giustificare la mediocrità servono cascate di parole – l'attrice premio Oscar ricorda i dettagli dell'infanzia di Waight Keller, cresciuta a Birmingham da una madre sarta, che le cuciva i vestiti addosso, appuntandoglieli con degli spilli, e conclude, sostenendo che «se siamo affascinati dai vestiti che disegna è perché Clare non lavora immaginandosi al di fuori di quei vestiti, ma dentro, nello stesso posto nel quale da bambina sua madre le fissava gli spilli”.

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E in effetti, a quella che oggi è la direttrice creativa di Givenchy – prima donna nella storia a ricoprire il ruolo nella maison francese – l'idea di disegnare abiti per lavoro è nata con quella madre, in una modesta abitazione di Birmingham, lontana dagli sfarzi (e dal rumore) di Londra. Più avanti, ne diviene l'aiutante, insieme a sua sorella. Classe 1970, nella capitale ci arriva per studiare al Ravensbourne College of Art e poi al Royal college of Art dove prende un master in maglieria. Poco dopo, si ritrova dall'altra parte dell'Oceano, negli Anni 90 di New York – coordinate imprescindibili per una certa moda nostalgica di oggi – dal più iconico dei designer: Calvin Klein.

«Dal punto di vista stilistico, il minimalismo non richiedeva molto impegno» – racconterà poi al Wall Street Journal – « ma a un certo punto, il marchio è divenuto immensamente famoso, e di conseguenza, commerciale, con grandi numeri: il divario tra il prima e il dopo è stato talmente brutale, che ti rende necessario crearti una corazza, un'armatura».

Nella seconda metà degli Anni 90, sempre senza fare rumore, la guerriera silenziosa e armata, ancora, delle stesse spille, si esercita anche con il guardaroba maschile, lavorando da Ralph Lauren, disegnando la Purple Label, linea luxury del marchio. «Alcuni pensano sia noioso, nella realtà da Ralph Lauren si lavora al millimetro, questo ti permette di andare in profondità, a prescindere da quello che vedi a un primo sguardo superficiale» – spiega senza scomporsi. Nel frattempo incontra l'architetto Philip Keller, e lo sposa. Avranno tre figli, le due gemelle Amelia e Charlotte, oggi adolescenti, e il piccolo Harrison. Su Instagram, il suo profilo è la bacheca di Pinterest di qualunque adolescente nata negli Anni 70: foto di Helmut Newton, Blondie e Mick Jagger, Serge Gainsbourg e Jane Birkin, Jean Shrimpton e David Bowie. Un universo estetico perfetto per Chloé, dove però approderà solo diversi anni dopo.

Nel 2000 arriva nell'ufficio stile di Gucci, all'epoca del regno di Tom Ford, Re Mida incontrastato. Con lei ci sono Francisco Costa, che poi diventerà direttore creativo di Calvin Klein, e Christopher Bailey, che invece approderà da Burberry. Una palestra dove ammette di aver imparato a veicolare il messaggio in una maniera chiara e consistente, ma, rispetto alla sessualità esasperata del marchio immaginato dal texano, e oggi così celebrata, il suo stile, che sta incominciando, sempre nel silenzio, a coltivare, non potrebbe essere più diverso. Allieva volenterosa, impara dove può, anche quando è in disaccordo creativo. Si affida con calma – laddove tutti sono sempre di corsa, diretti chissà dove – al tempo, anche se, a un certo punto, si pone la domanda che nessuno osa farsi, per quei corridoi:

«ma servirà davvero, un'altra gonna nera aderente»?

Quell'immagine non la riflette – come in realtà non riflette nessuna donna reale, impegnata nell'arte dell'equilibrismo tra privato e pubblico, lavoro e affetti – ma Clare Waight Keller impara, silenziosa, fino al 2005, quando arriva per la prima volta alla massima carica, quella di direttore creativo di Pringle of Scotland. Ragionare con la tela della maglieria è un'arte che le viene naturale, visti i suoi studi, e finalmente qui Clare dispone della libertà di immaginarsi la donna che vuole, senza dover più rendere conto alle proiezioni, forse distorte e fuori tempo massimo, che ne avevano avuto i suoi datori di lavoro precedenti, tutti, per coincidenza, uomini. Riporta il marchio sulla passerella, e vi rimane fino al 2011, quando a chiamarla è Chloé.

Il matrimonio non potrebbe essere più felice: le lunghe chiome biondo miele, la pelle di porcellana, quella forza calma che ha negli occhi, fusione di praticità inglese e fascino francese, rendono lei stessa prima rappresentante della donna che immagina. E in effetti, a fare la differenza, come ammette lei stessa, è il fatto di essere donna:

«mi chiedo costantemente non solo se quel pezzo mi piace, ma se lo indosserei.

Per questo a volte è difficile lavorare con gli uomini. Nell'ufficio stile, quando analizziamo dei capi, a volte esclamano “oh, ma è così Chloé”. Forse è possibile, ma io non ho voglia di indossarlo». Finalmente capace di esercitare il comando, lo fa con fermezza, senza mai alzare la voce. Non ne ha bisogno.

Romantica, dall'animo gipsy, avvolta spesso in lunghi abiti stampati, la sfida di Clare da Chloé è imparare a lavorare con consistenze materiche morbide, ondeggianti, capaci di riportare alla mente fantasie bucoliche e tramonti infuocati su qualche campo dove le spighe di grano si muovono, mosse dal vento. «Da Gucci ero abituata a disegnare il bozzetto, annotando i dettagli tecnici, mandarlo dalla modellista, e aspettare di veder tornare il risultato» – confessa – « ma con tessuti come il flou, il risultato era molto diverso da quello che avevo immaginato, e la maggior parte delle volte non funzionava». Così, fa camminare le modelle avanti e indietro per l'atelier, verificando ogni piccolo sussulto del tessuto, puntando spilli, come le aveva insegnato sua madre, imparando a dare forma a un'idea dai profili sfuggevoli. La maison plaude i risultati, e cerca di rimanere ai bordi di quello star system già così inflazionato, dagli assegni per indossare vestiti agli eventi e dagli accordi pubblicitari con le celeb. A essere attratte da quell'universo stilistico sono profili diversi: in prima fila alle sue sfilate ci sono Isabelle Huppert e Solange Knowles. Sulla passerella sfilano versioni moderne di Anita Pallenberg e Jane Birkin, Marianne Faithfull e Jane Fonda, la cui femminilità sussurrata non è mai infantile, e nasconde dietro gli svolazzi di pizzi e le balze una consapevolezza testarda e coriacea, la stessa di Clare.

La missione, che ha visto tra i predecessori illustri un giovane Karl Lagerfeld pre-Chanel, Stella McCartney e Phoebe Philo, prende in prestito lo spirito giocoso della fondatrice, Gaby Aghion, dalla quale Clare Waight Keller prende in prestito le parole. «La Aghion diceva “non spiego. Sono felice di vivere la vita che volevo”. Io cerco di fare lo stesso nel guardaroba del marchio che da lei prende il nome: far dialogare il lato femminile con quello maschile». Una missione della quale si incaricherà fino al 2017, anno di grazia della sua nomina come direttore creativo di Givenchy. Andrà a sostituire un uomo, Riccardo Tisci, che tra felpe con cappuccio e patch sacrileghi di Robert Mapplethorpe e sneaker da basket, si era allontanato dalla femminilità disegnata dal conte Hubert de Givenchy, amico, confidente e stilista di riferimento di Audrey Hepburn e Jacqueline Kennedy-poi-Onassis. Dopo l'era di zaini e combat boots by Tisci è arrivata Clare e con lei le origini della femminilità couture della maison.

La prima sfilata è al Palais de Justice, imponenti busti in marmo che si stagliano a sbirciare la passerella: nessuno aveva mai avuto il coraggio di usare quella location prima, ma se Clare è riuscita a far sentire la sua voce al di sopra del chiacchiericcio degli uomini che volevano dirle chi era e come si doveva vestire, di certo non si fa spaventare da un paio di busti. L'accoglienza della prima collezione, la primavera - estate 2018 è tiepida, il lavoro a cui è chiamata, anche con la couture, monumentale. Ci sono i cappotti tuxedo in lana con le spalle definite, lontani dai sussurri morbidi di Chloé; tornano gli abiti con balze e ruffle, ma sono tinti in un sobrio nero, le stampe al massimo sono optical. La precisione è quella del tailoring, ma la femminilità non ne esce intaccata, ma si fa più adulta, consapevole: Clare si immerge negli archivi – un esercizio semplice e naturale, con una maison di quella caratura, e che pure il suo predecessore non ha mai fatto – con l'umiltà di chi vuole imparare, ancora, dai mostri sacri. Studia i volumi, ne riporta sulla passerella alcuni motivi stampati. C'è anche il total look denim stropicciato dall'appeal urbano, la giacca in pelle morbida da indossare con texani total black, i trench in vinile rossi, la seta plissettata che, con malizia, sbuca da un lato di una gonna in tweed.

Il giudizio è sospeso, ma la stampa le concede tempo. La ragazza si farà, insomma. Come se una donna arrivata, forse più tardi degli altri, agli onori che le spettavano, avesse bisogno della condiscendenza che si riserva ai giovani talenti, che magari tentennano, ma qualche sbaglio è concesso. Un atteggiamento paternalista, sul quale Clare però, sceglie di sorvolare, ammettendo sibillina che «sì, può essere difficile lavorare in un mondo di uomini, ma il discorso attuale sul femminismo forse è anche un po' datato». L'uomo che quella maison l'ha fondata, però, vuole incontrarla, la invita nella sua casa a Parigi, fuori ad aspettarla un maggiordomo. «Aveva saputo che LVMH voleva riprendere la produzione della couture, interrottasi durante l'epoca di Tisci, e ne era entusiasta. Mi disse che il cuore del suo marchio risiedeva proprio in quello». Hubert de Givenchy morirà qualche mese dopo, ma il suo marchio è più vivo che mai. A farla salire agli onori delle cronache, però, è l'abito nuziale che disegna per Meghan Markle, sposa del principe Harry. L'astuta americana sceglie così una designer dai natali inglesi, per omaggiare la famiglia adottiva, e che però è capace di immaginarsi una donna moderna, che veste abiti dalle linee affilate, come piacciono a lei. L'abito è in seta con maniche a tre quarti e scollo a barchetta, rigoroso, ma con il velo sui cui lati si ricamano i fiori simbolo di ognuno dei 53 paesi del Commonwealth.

La fama, che pure Clare Waight Keller non ha mai cercato, a differenza di molti suoi ben più vanitosi colleghi, a quel punto è globale. I riconoscimenti non tardano ad arrivare. Nel 2018, a fine anno, viene insignita come British Designer of the Year per la categoria dell'abbigliamento femminile. A conferirle il titolo è la stessa Duchessa del Sussex, Meghan Markle, ora in dolce attesa. Si abbracciano sul palco con la familiarità giocosa di due amiche che non si rivedono da tempo. Qualche mese dopo, finisce nella lista del Time, tra le voci più influenti di questa epoca. Perché non c'è bisogno di urlare, per farsi sentire. E nessuno, oggi, la sa meglio di Clare.

preview for Clare Waight Keller on making Meghan Markle's royal wedding dress