Ogni giardino è una metafora. Ogni pianta è un prototipo di comportamento. Emanuele Coccia, una delle menti giovani più brillanti della filosofia contemporanea (e infatti vive a Parigi, dove è Maître de Conférence presso l’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales) nel saggio La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, parte da un concetto di Natura come parola che, scrive, «non designa ciò che precede l'attività dello spirito umano, né ciò che si oppone alla cultura, ma ciò che permette a ogni cosa di nascere e di divenire». Le piante, che ne sono i portavoce in senso letterale - respiriamo ciò che loro producono: se l'intera umanità scomparisse di colpo, loro continuerebbero a vivere senza problemi; nel caso contrario, invece, tutti gli animali terrestri, noi compresi, sparirebbero – sono i nodi di un Internet alla clorofilla e anche senza hater che rompono. Si adattano all'ambiente in cui si trovano, eppure, nella loro infinita varietà, si aiutano, comunicano, percepiscono i cambiamenti e trovano soluzioni. E dire a una persona che è un vegetale non è più un insulto, ma un complimento: se ne riconosce l’indispensabile presenza e una silente saggezza. Dalla giungla coloratissima di Dolce & Gabbana ai tessuti corteccia di Giorgio Armani, partendo dal défilé di Zegna, il rapporto uomo-natura sembra centrale nelle poche sfilate milanesi di moda uomo. Quella di Fendi, disegnata da Silvia Venturini Fendi, che è autrice anche degli accessori, è stata sicuramente la più poetica.

Con la regia di Luca Guadagnino, che magari non farà film memorabili ma nel raccontare il lusso dei ricchi ci riesce veramente bene (da Io sono l’amore a A Bigger Splash), l'intero parco intorno alla Villa Reale di via Palestro era allestito come un déjeuner sur l'herbe da ricchi & intellettuali. Un'unica fila di poltroncine di vimini lungo il perimetro verde, su ognuna di loro un cestino di paglia con la colazione, circondati mentre camerieri fighi come modelli servono da bere mentre nell’aria si diffondono le note delle Sonatine per piano solo di Ryuichi Sakamoto. Un Eden di soli e bellissimi Adami sofisticato e molto prezioso, dove la figura del giardiniere, oltre a solleticare fantasie erotiche alla Lady Chatterley (e va benissimo così), si trasforma in delegato di uno schema nuovo dell'umanità in relazione all'ambiente: grembiuli con tasconi, camicie di organza fiorata sovrapposte a quella in tela, giacche da lavoro in tessuti pregiatissimi.

Una festa bucolica, perfetta per giovinotti plutocrati che giocano a vivere in un film di James Ivory. La collezione è fresca, vitale come una pianta appena innaffiata e pimpante come una foglia dopo essersi scorpacciata di fotosintesi: la creatività di Guadagnino, usata come fertilizzante, dà i suoi frutti: alcuni suoi disegni a griglia, ispirati ai treillage per i rampicanti di fastosi corridoi vegetali, sono diventati la base per stampe e t-shirt di lusso estremo e rarefatto, dove s’intrecciano nastri a sottili strisce di pelliccia, mentre i cappelli da legione straniera hanno un foulard fiorito cucito sul retro, come se li avessero prestati i grandi viaggiatori della letteratura alla Bruce Chatwin o Joseph Conrad.

E, a proposito di viaggiatori, s’ispirano a paesi di cui non si potrebbe stabilire la geolocalizzazione ma sono debitori a un altrove che non è qui, ma è ora, i gentlemen super disinvolti di Giorgio Armani. Tornato “a casa” in quel Palazzo Orsini in via Borgonuovo dove nel ’96 stabilì la sua prima, importante sede, il Maestro (così lo chiamano i suoi accoliti) rastrema, asciuga, elimina svuota l’abbigliamento formale in un autocitazionismo che non è mai fine a se stesso perché è stato lui a introdurre il decostruzionismo nell’impettita moda maschile, fin dagli anni Ottanta in poi. Gioca sui colori, sulle righe da corsaro o sulle fantasie mediorientali (ma forse no), introduce finalmente un po’ di sexytudine nei fragili gilet di seta che sembrano tagliati da tessuti vintage e richiedono un torace modellato, ma fanno una gran bella figura sugli indossatori.


Il doppiopetto è ammorbidito fin quasi a sembrare un caftano, il blazer s’illanguidisce fino alla morbidezza della tunica, i pantaloni si fanno morbidi e con il cavallo basso come quelli turchi (ma forse no): eppure non c’è traccia di folklore, di citazionismo esotico, di appropriazione culturale dell’artigianato di paesi lontani: tutto fluisce e scorre in una lunga teoria di maschi sicuri di sé anche quando vanno al mare in bermuda, anche quando calzano sandali francescani o scarpe da sport.


Tanto per rimanere in tema, Armani disegnerà le divise della squadra italiana olimpica e paralimpica per i giochi di Tokyo 2020. È appena tornata da Shanghai, dove ha fatto sfilare la sua collezione maschile per celebrare i 40 anni del gemellaggio tra il capoluogo lombardo con la metropoli cinese, Miuccia Prada, carica di onori e gloria. Ha deciso di farla rivedere a chi non era stato invitato, tipo chi scrive, nella sua boutique in via Montenapoleone. Vedere da vicino i capi, poterli toccare, potrebbe essere una buona ricetta per grandi marchi, da perfezionare in futuro. Questa volta si tratta di esprimere uno humour secco, asciutto, raffinato come gli abiti che variano dal sartoriale allo sportswear mescolando con gioia tutta intellettuale stilemi da uomo e da donna. C’è una semplicità grafica nelle grandi canotte tricottate un po’ da Querelle de Brest, un po’ Brigitte Bardot, nelle sahariane dalle tasche grandi come zainetti aggettanti, nelle scarpe che citano quelle da golf mixate al gusto inglese, nelle stampe da cartoon in colori pastello. Come sempre, ma sempre in modo differente, Miuccia perverte, dissocia, spariglia la classicità riconducendola a forme primarie, quasi minimaliste, addirittura zen: per poi ri-sovvertire il tutto immergendolo nel lilla, nel rosa, nel blu elettrico, nel viola. È consolante ritrovare la sovversione di una signora che non si arrende mai al già troppo noto – o all’eccessivo lavoro di archivio, altro argomento molto discusso di queste sfilate – ma si apre a un dialogo con un futuro e con un paese che è già qui. Usando la stessa irritante, straniante e provocatoria sensazione di quando – ve le ricordate? – si schiacciava sotto il palato una caramella al seltz. Frizzante e acidula, rinfrescante e strana, ma che causa dipendenza, come la moda maschil/femminil/quelchevolete della designer milanese. Autrice di uno stile che agisce con efficacia nella contemporaneità, al di là di “buono” e “cattivo” gusto, in cui l’estetica è l’esperienza con qualcosa, non di qualcosa. E non ci sembra poco. Anzi.