Ribelle, eppure elegantissima, indossata dagli aristocratici sui campi in terra rossa, e dai Clash sui palcoscenici. Storia della polo, inventata in India, amata dai francesi, ma con il passaporto orgogliosamente Made in Uk. Alternativa casual ma non troppo alla camicia, perfetta alleata da sfoggiare con eleganza sui campi da tennis – anche sugli spalti, per chi non gioca – magari abbinandola a pantaloni chiari con la gamba flare, come si usava agli inizi. Un vessillo di un certo stile di vita sportivo, la polo, che però ha preso strade che non si sarebbe aspettata neanche lei, signorina per bene e un po' snob con natali esotici (i campi da polo dell'India, dove erano di stanza i militari inglesi durante l'era del Colonialismo), ma passaporto fieramente britannico.

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Clint Eastwood, 1960

A sfoggiarla per primi furono infatti proprio gli ufficiali di stanza nel paese del Gange, che, scoperto il gioco del polo, con il quale si dilettavano mentre erano distanti da casa, adottarono anche quella pratica t-shirt con colletto chiuso da 2 o 3 bottoni, a mo' di camicia, della quale replicava il taschino sul petto. E in effetti, sul finire del XIX secolo era partita dagli aristocratici di Parigi questa tendenza a tenersi in allenamento facendo attività fisica e dedicandosi allo sport (in italiano, inizialmente tradotto con la eclettica locuzione “diporto” ). Il tempo libero e la noia hanno fatto il resto, espandendo per tutta l'Europa questa mattana da nobili del sudare sì, ma solo sui campi da gioco. Di conseguenza è nato un guardaroba parallelo a quello ufficiale, di cui non era certo meno elegante (basta pensare ai pantaloni jodhpur che si usavano in India per cavalcare), ma atto allo scopo. Musa anche per conto terzi, guardandola su quei campi indiani, con il colletto che si alzava, e infastidiva i giocatori a cavallo, a John Brooks (mente dietro Brooks Brothers) venne l'idea di piantarci sulla punta due bottoni, per tenerlo ferma, battezzando la "camicia button-down".

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La famiglia Lacoste, 1964

Raggiunse però la fama in Francia, quando un ribelle figlio della buona borghesia – come lo sono tutti i ribelli, che insorgono contro le gabbie dorate prescritte loro dall'ambiente sociale nel quale vivono e dalla loro famiglia – decise che, sui campi da gioco di tennis, dove ci si presentava vestiti come ad un aperitivo formale, in giacca, camicia e pantaloni, qualcosa doveva cambiare. Jean-René Lacoste, viso asciutto e severo da chansonnier, smorzato da un naso largo e dall'epidermide costantemente esposta ai raggi UV, tagliò le maniche a quella camicia, e ci ricamò sopra un coccodrillo, suo talismano portafortuna – anche se molti, per anni, hanno pensato fosse un riferimento neanche troppo modesto al suo stile di gioco, da (raffinato) predatore. L'animale, René lo aveva visto a Boston nel 1927, dove si trovava con la sua squadra per affrontare l'Australia in una semifinale di Coppa Davis. L'incontro fu ravvicinato, ma non pericoloso: l'animale era nella vetrina di un negozio di pelletteria, tradotto su una borsa, che René già si immaginava perfetta per contenere le sue racchette. Forse prendendolo in giro, dandogli ironicamente dell'”elegantone”, il capitano Pierre Gilou gli promise che, se avesse vinto i due match singolari che gli spettavano, quella borsa gliel'avrebbe regalata lui stesso. Un augurio che gli portò bene, tanto da convincere lo sportivo, che, come tutti gli artisti che sono eccelsi nei loro campi, era anche abbastanza scaramantico, a ricamarsi l'animale addosso, quando era sul campo. L'idea ebbe un discreto successo, tanto che, ritiratosi dai campi per sopraggiunti limiti di età, si dedicò totalmente all'azienda, divenuta un simbolo.

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Fred Perry

A percorrere la sua strada, seguendo quell'esempio di successo, fu, una ventina d'anni dopo, un altro tennista, che però era di stanza dall'altra parte della Manica. Più o meno contemporaneo di René, Fred Perry era però figlio di una storia diversa. Suo padre Samuel, nato operaio in una fabbrica che produceva cotone e divenuto membro del Parlamento in forza al partito laburista, forse lo spinse a quell'hobby da ricchi, il tennis, che di certo lui non si era potuto permettere. Fred, ribelle pure lui, iniziò col tennis da tavolo, per poi passare ai campi in terra rossa, dove raccolse successi e fece numerose vittime, tra avversari e donne sugli spalti. Fisico longilineo, alto, vestito di un pantalone lungo bianco, e di una polo con collo a v, a contrasto, si tirava indietro con la gelatina i capelli biondo miele, facendo sospirare persino la molto poco sospirosa Marlene Dietrich. Indossa per la prima volta la sua polo sui campi di Wimbledon, del 1952: il modello, l'M3, è in tinta unita, sul petto si mostra con orgoglio la corona d'alloro ricamata, che da allora diventerà sinonimo del brand, al pari del coccodrillo di René. La doppia riga sul colletto, altro sinonimo dello stile à la Fred, arriva in seguito e per puro caso: un cliente di LillyWhites, mecca made in Uk dell'abbigliamento sportivo, ne richiede una con i colori della sua squadra di calcio. Il twin-tipping (la doppia riga sul collo) si sfoggia così sul modello M12.

Portrait of a young Mod couple, Woolwich, London 1981pinterest
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Ritratto di una coppia Mod a Londra, 1981

E proprio la vicinanza ai tifosi del calcio inglese, varrà una seconda vita alla polo – soprattutto quella di Fred Perry, mentre in America Ralph Lauren negli Anni 70 la mette indosso ai suoi Wasp con case a Martha's Vineyard – perché diventa vessillo dei Perry boys, crew di hooligan attive tra gli Anni 70 e 80. Dai campi da gioco, ai campi della lotta di classe, e della ribellione giovanile, il passo è brevissimo. Nata da chi si ribellava ai formalismi, pare logico che riviva addosso a chi si ribella ad uno stato troppo vecchio e imbolsito per capire i giovani e i loro tormenti. Così, la polo entra a far parte dell'armamentario stilistico obbligatorio dei punk prima, e dei Mod poi. Paul Simonon e Joe Strummer dei Clash inneggiano alla terra d'Albione, irridendone vizi e ossessioni, indossando skinny jeans, anfibi, biker in pelle e la polo con la corona d'alloro: ogni guerra richiede le sue divise, d'altronde. Una chiamata alle armi che convince anche i Mod, (capitanati dal Modfather, e santo laico della controcultura, il cantante Paul Weller) difficilissimi da soddisfare quando si tratta di preferenze modaiole: i completi realizzati su misura in sartoria, e il parka per proteggerli dalle piogge quando si sfreccia sulla Lambretta, direzione le spiagge di Brighton – che poi, furono terreno di una battaglia vera e propria, quella tra i Mod e i loro acerrimi, e molto meno ben vestiti rivali, i rocker – si indossano anche con la polo.

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Joe Strummer, 1981

Una suggestione arrivata fino ad oggi, con titoli divenuti pellicole generazionali come Trainspotting, che pure è ambientato all'inizio degli Anni 90. A incapsulare perfettamente, però, la rabbia giovanile degli Anni 70, errori e a volte orrori (come lo sversamento delle frange più hardcore dei punk nei movimenti politici alt-right) è un altro titolo, del 2006, assurto già a rango di classico in Inghilterra, pellicola sulla base della quale si misurano tutte le altre che vogliono ambientare romanzi di formazione negli anni durissimi della Thatcher e della guerra per le Falkland: This is England, lungometraggio di Shane Meadows, prodigio della macchina da presa anglosassone e figlio spurio di Ken Loach. Uno spaccato crudo sull'adolescenza della provincia inglese, ad avere il ruolo da protagonista è il dodicenne Shaun, orfano del padre, perso proprio nella guerra delle Falkland, che trova una nuova famiglia in un gruppo di amici dalle personalità, e dai guardaroba variopinti: dalla new-romantic fan dei Cure con gonne in tulle e anfibi, a Lol, modette dai capelli biondo ossigenato tagliati cortissimi, drammi familiari a carico, sigaretta sempre in bocca e, indosso, la polo Fred Perry. Preciso fino all'ossessione, Meadows le mette addosso la versione nera, con doppia riga color champagne, effettivamente prodotta negli Anni 70, e preferita alla versione bianca, più adatta al tennis, da Mod, skinhead e suedehead. Una polo che è tra le più amate, ancora oggi, dagli epigoni odierni di Paul Weller, e che riesce a intessere, tra i fili del cotone piqué, il DNA di una gioventù ribelle, eppure elegantissima.