La Roma di oggi non è una città premurosa con chi cammina. C’è una storia contemporanea della città da scrivere coi piedi, calpestando uno a uno i vari tipi di selciato, breccia, basolato, buca e voragine di cui Roma è rivestita come un Arlecchino urbanistico ancora più disinvolto, rispetto all’originale orobico, nell’arte del mix and match. Ci sono strade sadomaso — come quelle che compongono il trapezio scaleno della moda tra piazza di Spagna e via del Corso — che hanno rivolto a chi provasse a percorrerle coi tacchi, tra le vetrine di alta moda e i sampietrini divelti, un’ordinanza perentoria: se bella vuoi apparire, un po’ ti devi maledire. Ci sono strade di quartieri alti impossibili da scalare a piedi (a meno che non si sia impegnati in una sessione di power walking), dove l’arrampicata sociale è la metafora perfetta della scalata impossibile, realmente alpestre, che rilievi come i monti Parioli, acropoli dei ricchi e potenti, hanno imposto a chi li volesse risalire privo di eredità immobiliari significative o non automunito. Ci sono strade che non conoscono discesa, in cui benefit essenziali quali la raccolta dell’immondizia o le scuse dopo una collisione pedonale sono ormai desueti come costumi bislacchi di epoche passate e in cui, per quanto ammortizzate possano essere le tue sneakers, ti sembrerà sempre di deambulare a piedi scalzi, fra i cocci di birre e di umanità, sulla sabbia rovente di una spiaggia libera in pieno agosto, peraltro senza mare.

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Sara_Cervelli

Per fortuna sopravvivono rarissime vie, come quella intitolata a Santa Maria Ausiliatrice (metro Colli Albani), che sono fatte per starci larghi. Queste strade sono babbucce Disney in un mondo di sandali alla schiava. Hanno panchine ovunque, baristi che ti salutano per nome anche se non ti conoscono e marciapiedi ancora freschi, che paiono immense solette ortopediche collettive, pronte a restituire, per una volta, un po’ di sostegno plantare pubblico in quest’epoca dominata dalle callosità private. Gli ottici non espongono montature da sport estremi come la mountain bike a Trastevere o l’ombrellone in quinta fila a Fregene, ma ostentano kit da presbiopia con relative custodie da collo, che in zona costituiscono la più ambita medaglia al valore. Qui ti riposi solo a guardare le vetrine, i cui manichini non hanno niente dell’aggressività passiva con cui il marketing contemporaneo ha disegnato quelli destinati ai negozi del centro, ma sembrano altrettante sirene diversamente omeriche che, invece di tentarti con promesse di felicità, in luoghi remoti e ignoti, non fanno altro che invitarti ad andarti a fare un riposino, sul divano di casa. Da queste parti non aprono monomarca di prestigiosi brand di caffè o dungeon di Cross Fit, ma ancora resistono negozi di soli pigiami, come Zelide Lane, davanti alla cui vetrina, se non si fa attenzione, può accadere di appisolarsi. Se a Lower Manhattan esistono i Nap bar, dove coricarsi per 25 dollari l’ora, al Tuscolano trovate dunque le botteghe-pennichella, dove abbioccarsi gratis.

Solo qui poteva attecchire A piedi nudi, l’unico negozio di Roma specializzato in pantofole o in scarpe accoglienti come tali. A piedi nudi è il manifesto poetico della zona in cui è collocato. Da sedici anni Elisabetta è la regina di un regno su cui potrebbe anche non sorgere mai il sole, e starebbe benissimo così. È lei che ha restituito agli abitanti di questa parte di Roma la facoltà di poter essere belli dentro casa, e comodi fuori, dimostrando che anche nel tinello eleganza c’è. Prometea di babbucce, il suo fegato si consuma solo se i clienti le chiedono ciabatte in PCV, anche se, in generale, non è stregata nemmeno dal concetto di infradito. La prima parte della sua missione è stata, infatti, quella di sdoganare le pantofole come oggetto da non comprare un tanto all’etto, dove capitasse, qualora l’esemplare in proprio possesso fosse rotto o avesse cessato di profumare. I primi clienti, all’apertura, nell’aprile 2003, erano i più anziani. I quali, a parte lo sconto, non chiedevano che due cose: rispetto delle eventuali patologie e comodità. Elisabetta soddisfò questa domanda, ma mostrò loro anche i vantaggi degli extra, a cominciare dai rialzi e dalle solette intercambiabili. Gli anziani del Tuscolano scoprirono un mondo. Fu così che i più esigenti, protagonisti di una mondanità perlopiù indoor, cominciarono a pretendere le ballerine da interni della Ramadoro o la polacchina della Diamante. Se una De Fonseca è certamente la Fiat delle pianelle, quella col migliore rapporto qualità-affetto, un’ammiraglia della Haflinger è la Mercedes, la pantofola per cui devi spendere, quella che, quando il vicino viene a chiederti il sale grosso, devi ostentare. Pioniera delle pantofole che imitano le scarpe, Elisabetta ne vende di belle eppure morbide, funzionali ma non geriatriche; ortopediche, ma non per questo meste.

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Con gli anni il desiderio di pantofole come si deve cominciò a farsi strada anche nei più giovani, per motivi inaspettati. All’apparenza non c’è molto di eccitante o sensuale nelle pantofole. Ci sono momenti, in una giornata moderna, in cui il piede deve smettere perfino di esistere, figuriamoci farsi strumento di conquista. Eppure, proprio in babbucce, nell’evidente assenza di qualsivoglia segnale di disponibilità o di volontà di essere sedotti o di sedurre, può capitare che, compiendo una rivoluzione a 360°, il domestico diventi l’erotico. Il resto lo fa il pellicciotto che deborda dai profili delle tomaie delle Furkenstock. Chissà che qualche Mark Darcy di Roma Sud non venga qui a scegliere o anche solo ad ammirare quelle pantofole col pelo, che sono la versione ortopedica dei mutandoni della nonna di Bridget Jones! Addio pantofola come simbolo di abbrutimento post-lavoro, bentornata sexual tension, piacere e dovere così necessario che, se non sarà risvegliato dallo schiocco di una frusta, può darsi che sia riacceso dal tocco di un piedino rivestito di feltro. Il secondo grande obbiettivo centrato da Elisabetta è stato sdoganare il comfort ottenuto a domicilio anche quando capita di trovarsi in trasferta nel mondo reale, e non solo in ambito balneare. Quello che, d’inverno, è un culto da focolaio domestico, da maggio in poi diventa una passione ben più dionisiaca, e si riversa nelle piazze, nelle spiagge, in ogni luogo, in ogni lago. Fase 2: scarpe che imitano le pantofole. Una risposta geniale alla concezione del benessere come quella cosa che comincia appena ti sei levato le scarpe: solo indossandomi potrai stare comodo a Maccarese come a casa tua, a meno che tu non abbia casa a Maccarese.

Elisabetta, in sostanza, era già fautrice del normcore da prima che Michelle Obama facesse la sua prima uscita pubblica con delle Crocs ai piedi (agosto 2009), sebbene non possa negare di essere stata beneficiata commercialmente dalla volta in cui il principino George (giugno 2015) ne indossò una versione blue Navy, a una giornata di beneficenza. Per i clienti di A piedi nudi, in origine, la Crocs era la Fiat Multipla dei piedi: non era chic e impegnava. Ma, sfruttando la curiosità generata dai vip, Elisabetta ebbe l’occasione di illustrare al meglio le caratteristiche tecniche delle Crocs, come la resina vegetale di cui sono fatte, che è antibatterica e antifungo (il che può sembrare paradossale visto che, indossandole, sembra di avere dei grossi porcini fluo al posto dei piedi). Così, queste calzate monstre, che sembrano fatte apposta per permetterci di rimettere un piede nella nostra infanzia, hanno trovato la loro strada anche nelle scarpiere del popolo del Tuscolano.

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Più semplice fu vendergli le Birkenstock, brand duttilissimo, in grado di interpretare lo spirito del tempo e anticipare le tendenze come pochi. Cos’è una Birkenstock se non il simbolo polimaterico del dominio della praticità del popolo tedesco sull’eleganza di tutti gli altri, nonché sulla natura: regno animale (la pelle della tomaia), vegetale (il sughero della suola) e minerale (il metallo delle fibbie). Detto questo, oggi ce n’è anche la versione vegana. Di qui la più preziosa lezione delle Birkenstock: o fai finta che le mode non esistano — e indossi le Arizona anche per andare ai matrimoni — oppure, più semplicemente, aspetti che le Birkenstock stesse diventino di moda. Siamo così abituati all’idea che tutto quello che ci capita nella continua lotta del lavoro o dei mercatini a chilometro zero debba essere impervio, faticoso o disturbante, che tendiamo a condividere questo disagio anche col nostro corpo e, in particolare, coi nostri piedi. È una piacevole sorpresa scoprire, grazie a persone come Elisabetta che, prendendoci più cura di noi stessi, possiamo soffrire lo stesso, ma almeno coi piedi a posto. Quando hai visto di tutto e, soprattutto, patito di tutto, torni alle cose semplici. Torni a casa. Benedetta sia l’epoca, o almeno l’età, in cui il fashion torna a noia e diventa di moda la normalità.