Nella sua vita sono davvero poche le cose che non ha fatto. Sicuramente, una su tutte, Pierre Cardin ha contribuito a creare la moda, a portarla ad alti livelli, a rivoluzionarla a suo modo da più punti di vista grazie ad abiti e ad accessori che sono diventati leggenda. Un po’ come lui che oggi, qui al Lido, nonostante la tempesta di pioggia che ha annullato ogni red carpet in programma - compresi quelli con Johnny Depp e Roger Waters - ha deciso di esserci per presentare House of Cardin, il documentario realizzato in suo onore dalla coppia di registi P. David Ebersole e Todd Hughes. “Sono troppo giovane per camminare da solo, ci confida, ma oggi qui ci sono venuto lo stesso, perché sono nato in Italia e sono molto legato a questa terra”. Veneto di Sant'Andrea di Barbarana, oggi novantasettenne, Pietro Costante Cardin visse nel Belpaese per due anni fino a quando, nel 1924, i suoi genitori decisero di spostarsi in Francia, ma le cose non furono affatto facili. “Quando arrivai per la prima volta a Parigi – ci confida sorridendoci da dietro i suoi occhiali da vista con la montatura nera – ero talmente spaesato da confondere rue Saint-Honoré con rue du Faubourg Saint-Honoré. Poi mi abituai”.

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Il film, distribuito da iWonder, presto nelle sale italiane e poi su Sky Arte, va a ripercorrere la sua vita, dalla povertà del dopoguerra ai fasti della Ville Lumière, dalla miseria all’apertura della prima boutique di alta moda in Giappone, dal suo Veneto al mondo. Ha sfilato per primo sulla Muraglia Cinese come in piazza Rossa a Mosca; ha vestito i Beatles, fatto sfilare già negli anni '60 minigonne e modelle asiatiche come Miss Hiroko, ha sdoganato la moda unisex, ha amato follemente un uomo (il suo braccio destro André Oliver) e sposato poi un’attrice famosissima, Jeanne Moreau. “Mi è sempre piaciuto sempre o il vino o l’acqua, il mélange non fa per me”, ci confessa. “Quando ho cambiato ho deciso di farlo al meglio”.

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Negli anni Ottanta, Pierre Cardin decise di acquistare una delle residenze più pazze del mondo, il Palais Bulle sulla Costa Azzurra, disegnato dall'architetto ungherese Antii Lovag, monumento storico dal 1988. Risale a quegli anni anche l’acquisto del ristorante Chez Maxim, simbolo della ristorazione parigina tra rue de Rivoli e la Chiesa della Madeleine, un episodio che nel film viene raccontato da Jean-Paul Gaultier. Lo stilista italiano venne lasciato fuori dal ristorante perché indossava uno smoking e un dolcevita bianco senza camicia e senza cravatta. Lui, quando ha potuto, ha deciso di comprarselo, anticipando la scena cult di Pretty Woman in cui Julia Roberts, nei panni di una prostituta, grazie a un fidanzato ricco torna a spendere migliaia di dollari in un negozio di Rodeo Drive, a Los Angeles, dicendo alla commessa che giorni prima l’aveva cacciata la frase “grande sbaglio, grande”, per poi andarsene via soddisfatta. “Sono sempre stato schietto e sincero. Non si può piacere a tutti, l’importante è piacere a sé stessi. Se non mi si ama, non importa, preferisco amare gli altri”.

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A Parigi vi arrivò nel 1945, prima da Schiapparelli, poi come primo sarto da Christian Dior. “Erano tutti pazzi di me, perché oltre ad essere bravo ero anche un gran bel ragazzo”. Nel 1950 decise però di fondare la sua casa di moda che tre anni dopo inizierà a produrre abiti di alta moda, ma non solo. Fu il primo, infatti, a “brandizzare” il suo nome e ad utilizzare il suo logo mettendolo su qualsiasi oggetto, dalle carte da giochi ai portachiavi, dagli sci alle penne, dalle macchine agli aerei, fino ai profumi. Su tutti, il più venduto aveva una forma fallica e una pubblicità che lasciava poco spazio all’immaginazione. “All’epoca c’era quella spensieratezza che ci permetteva di fare tutto, perché tutto ancora doveva essere fatto o inventato”.

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Lavorare è stata da sempre la sua “magnifica ossessione” e non intende affatto smettere. “Per me lavorare è tutto, mi rilassa, non mi piace andare in vacanza”, aggiunge quest’uomo straordinario che New York torna ad omaggiare con Pierre Cardin: Future Fashion, una grande mostra in suo onore al Brooklyn Museum, dopo quella di quarant’anni fa al Metropolitan. Nel frattempo ci sarà anche questo film, “la cosa più bella che potessero dedicarmi – ci confida – perché mi ha fatto scoprire lati di me che avevo dimenticato”. Si pente di qualche cosa? – gli chiediamo. “Direi di no”, risponde secco lui, ma sempre con il sorriso. “Sono conosciuto e son ricco, sono stato bello… Rifarei ogni cosa, anche la più stupida. È bello sbagliare, no?”. “L’importante, conclude, è rimanere un artista. Io lo sono, ma ogni giorno continuo ad avere ancora il bisogno di dirlo, sempre”. Prossimi progetti? “Vivere, ancora per molto tempo”.