«La mia foto preferita è quella nell’abito argentato plissé, in piedi su una roccia viola al lago Mono, in California. È stato il primo scatto ed ero davvero nervosa. Temevo di fallire in questo progetto. Per cui, quando la guardo, vedo l’orgoglio di aver superato le mie paure», racconta Shae Acopian DeTar. 41 anni, cresciuta tra la Pennsylvania e New York, oggi vive a Los Angeles ed è un’artista e fotografa. Forse per sentirsi più sicura, nei suoi scatti ha camuffato i capelli biondissimi sotto una lunga parrucca rossa.

È vero che stava per rifiutare la nostra proposta?
Sì, perché ero terrorizzata! Non scatto mai autoritratti e non mi sento a mio agio davanti all’obbiettivo, non come quando facevo la modella, ma ero giovane. Ho capito che dovevo affrontare questi timori, e sono andata in biblioteca per studiare un po’ di storia dell’autoritratto nell’arte. Mi ha coinvolta talmente tanto che ora voglio realizzare una serie di scatti ispirati alle mie poesie preferite e sarò io la protagonista. Grazie di aver fatto accendere questa scintilla in me!

Che ricordi ha di quando sfilava?
Ho smesso prima dei trent’anni per tornare a studiare, ma conservo ancora il mio portfolio e ho dei bellissimi ricordi. Negli anni 90 però era tutto molto diverso. Non esistevano i social media innanzitutto. Ricordo quando dovevo girare per Milano per i casting senza Google Maps: incontravo sempre qualche italiano gentile che mi aiutava a trovare la via giusta. Le modelle, però, non avevano controllo sul proprio corpo. Ero così giovane, non mi sentivo pronta per i nudi e mi è capitato di trovare fotografi che si irritavano per questo. Per esempio, non ricordo di essere mai stata fotografata da una donna. Oggi le cose stanno cambiando, la strada è lunga ma i progressi sono incoraggianti.

Quando si è dedicata alla fotografia?
Per anni ho avuto un negozio di abiti vintage. La morte del mio cane Crumbles è stata una perdita dura da sopportare e sentivo di dover cambiare qualcosa della mia vita. Mio marito mi suggerì di provare con la fotografia, così ho iniziato a sperimentare, imparando anche a sviluppare le foto in camera oscura. Istintivamente, quando ho avuto in mano le prime stampe, le ho dipinte, come facevo da ragazzina quando ritagliavo foto dai giornali e poi ci disegnavo sopra. Era l’epoca dei blog, tutti ne avevano uno, così l’ho aperto anche io e da lì sono arrivati i primi clienti.

Qual è il tratto distintivo dei suoi lavori?
Le fotografie dipinte a mano. Uso acquarelli, acrilici, a volte carboncino. Per le mostre scelgo sempre un formato enorme, richiede tempo ma sono davvero d’impatto in grandi dimensioni.

Quali sono i suoi riferimenti artistici?
La pittura a olio, la poesia e la natura. Non posso fare un elenco esaustivo, Van Gogh, Frida Kahlo, Caravaggio, Georgia O’Keeffe, Jan Vermeer, Egon Schiele... Sono un’appassionata di storia dell’arte e di biografie, che mi aiutano a trovare conforto perché la vita d’artista può essere dura.

È anche per questo che ha cominciato a studiare pittura da qualche tempo? Circa due anni fa, davanti a un quadro di Gustav Klimt alla Neue Galerie di New York, ho capito che volevo andare a scuola per imparare a dipingere. Sono talmente determinata da aver chiuso nel cassetto la macchina fotografica per concentrarmi solo su questo. Però mi concedo ancora qualche progetto speciale, come questo per Marie Claire, perché ho bisogno di piccole vittorie in ambiti nei quali mi sento affermata: servono molti anni per raggiungere un buon livello con la pittura figurativa e questo può essere deleterio per la propria autostima, soprattutto per chi è duro con se stesso come lo sono io.

Perché è importante che le donne siano rappresentate nell’arte?
Ancora oggi grandi artiste sono escluse da libri e corsi di studio, bisogna fare ricerche autonome per scoprirle. Parlo, per esempio, di Leonora Carrington, Artemisia Gentileschi, Catharina van Hemessen. È essenziale però che tutti, a prescindere da genere, appartenenza o età, abbiano una voce per potersi esprimere artisticamente. Per raccontare che cosa significhi essere umani dal proprio punto di vista. La prospettiva è un elemento potentissimo: quando sei così umile da considerare quella di un altro, ti relazioni con empatia, tolleranza e compassione.

Che tipo di donna ha voluto rappresentare in questo progetto?
Uno spirito libero, allineato con il pianeta. Una donna circondata dal colore, che mi somiglia decisamente, visto che a volte mi chiamano «l’arcobaleno che cammina» (ride). Ancora prima di vedere gli abiti ho cercato le location, nella natura, che è la mia prima ispirazione. Tutte in California, come il lago Mono, il Red Rock Canyon State Park, il parco di Joshua Tree, Malibu... Ho guidato davvero tanto!