L’inafferrabile Tea Falco, attrice, regista, performer e cantante è tornata volentieri alla fotografia (suo primo mezzo espressivo, sotto l’influenza e lo stimolo della madre), scegliendo di autorappresentarsi in una donna-manichino, «un burattino plastico ma con diverse anime». Originaria di Catania, 33 anni, ha esordito come protagonista in Io e te di Bernardo Bertolucci, per poi passare alle serie tv 1992 e 1993 e l’anno scorso alla musica, con due singoli dalle sonorità trap (Bere e Virale).

Qual è il suo rapporto con la moda?
Mi piace molto la moda che diventa arte. Le arti nel passato avevano lo scopo di portare la società a un altro livello di evoluzione umana: servivano a far riflettere ed erano lo specchio del tempo. Oggi vedo una miscellanea di stili e contaminazioni futuristiche tra Netflix, la musica trap e gli anni 90. E più che mai la cultura è globalizzata. La moda allora è lo specchio per studiare questa società.

Ha intrapreso strade diverse: non ha trovato quella definitiva o si sente un’artista tout court?
Non mi sento un’artista, mi sento un essere umano che sperimenta e che con libertà entra nelle varie tecniche. Non mi sento definitiva perché non mi incasello in nessuna di queste arti. Per me sono mezzi di ricerca che hanno a che fare con la vita stessa. Penso che si debba vivere la vita in libertà assoluta entrando nei personaggi e giocando a essere qualcun altro come facevamo da piccoli. Perché la vita è un gioco e non esistiamo veramente, nel senso che quello che siamo è un costrutto sociale, il frutto delle nostre esperienze. Mi sento un’esploratrice nomade e tutto quel che faccio racchiude la mia ricerca.

Che cosa hanno in comune le sue sperimentazioni?
Quello che mi interessa è conoscere il cervello umano e la vita nei suoi meccanismi più sottili. Quindi queste tecniche artistiche hanno in comune la ricerca sulla vita.

Da dove prende ispirazione?
Apparentemente non c’entra nulla, ma il mio riferimento è la scienza. I miei artisti preferiti sono gli scienziati, i fisici e gli antropologi. Yuval Noah Harari è il mio artista del momento (storico e autore di diversi saggi bestseller sulla storia e l’evoluzione dell’umanità, ndr).

Chi sono gli artisti che ammira?
Uno è David Lynch. Ma non per i suoi film. Tiene conferenze in giro per il mondo parlando di fisica e di come il cervello umano può tutto. Lo stimo molto perché quando parla ha l’entusiasmo di un bambino, come se non avesse perso quella verità e la purezza. Mi piacciono essere umani così, capaci di andare fino in fondo, essere coerenti, dire la verità. Bernardo Bertolucci era così.

Qual è l’idea da cui è partita per le nostre foto?
C’è prima di tutto il gioco. Il concetto è legato agli strati che può avere un personaggio. Arlecchino era la maschera che conteneva tutti i personaggi e il suo costume era fatto con gli scarti dei vestiti degli altri. Quindi era il personaggio dei personaggi. Penso sia una metafora bellissima della natura umana, perché noi siamo il risultato di tutto quello che ci ha influenzato, delle persone che abbiamo incontrato. Per questo bisogna non prendersi sul serio e non prendere sul serio gli altri. Poi c’è un riferimento a René Magritte (citato anche nel titolo del suo docufilm sulla Sicilia Ceci n’est pas un cannolo, ndr): il Surrealismo è la mia corrente artistica preferita insieme al Dadaismo.

Perché è importante il potere dell’autorappresentazione per chi crea?
Tutti ci autorappresentiamo, indipendentemente dal mezzo. Gli scrittori lo fanno con le parole, così i registi con i propri film. E negli altri cerchiamo sempre noi. Quando guardiamo un’opera artistica in realtà ci stiamo cercando.

Come mai ha scelto un alter ego, Nea, per la sua carriera musicale?
L’alter ego è un’altra persona che può esistere in te e ti può salvare. Se per esempio un balbuziente interpreta un personaggio non balbetta più.

Che cosa le riserva il futuro?
Continuerò con la mia carriera di attrice e parallelamente avrò qualche alter ego in più.