Un altro (American) dream che si infrange contro le leggi, molto reali, dell'economia, quello di Barneys. Dopo il fallimento del big del fast fashion made in Usa Forever 21, tocca ora ad un'altra istituzione, che però di fast non ha mai avuto nulla. Da qualche giorno nelle mani di Authentic Brands – gruppo che possiede già marchi come Nine West, Nautica e Juicy Couture e ha messo sul piatto 271,4 milioni di dollari per l'acquisto –il nuovo proprietario sembra intenzionato a chiudere i negozi, liquidare le merci e anche un pezzo di storia dei grandi magazzini americani. Una saga (senza lieto fine), meritevole di una serie dedicata, Barneys è stato dal 1923 emblema di una certa borghesia intraprendente e visionaria, incarnata dal fondatore Barney Pressman, che in quell'anno aprì a Chelsea un emporio di abbigliamento maschile a basso prezzo, impegnando, secondo la leggenda, l'anello di fidanzamento di sua moglie per 500 dollari. Un indirizzo, quello tra la 7a Avenue e la 17a Strada, che divenne punto di ritrovo di un mondo variegato, non solo per la possibilità di comprare senza dare fondo al portafoglio, ma anche per la sensazione, varcatone l'ingresso, di sentirsi a casa, in un ambiente intimo, lontano dalle brutture di una città che si stava avviando di gran carriera verso la Grande crisi del 1929. Una sicurezza, per gli abitanti di un quartiere ancora lontano dalla gentrificazione, che ha poi visto il successo nella seconda parte del secolo quando il figlio di Barney, Fred, ne prese le redini, trasformando quel negozio un po' wunderkammer un po' bottega, in un luogo del desiderio dall'appeal esotico: molto dedito alla ricerca anche di marchi stranieri, Fred portò, a poco a poco, il glamour del vecchio Continente in un angolo di New York, aprendo anche all'abbigliamento femminile, introdotto nel 1976 e poi celebrato appieno in un altro negozio dedicato, a pochi civici di distanza dall'indirizzo storico. La trasformazione di una bottega familiare in materia da romanzo era già allora completata: Barneys era nel 1986 la versione newyorchese dell'Au bonheur des dames, grande magazzino parigino carico di lustrini e storie da retrobottega ciarliero, dove si ambientava l'omonimo romanzo di Emile Zola del 1883. Destinazione prediletta di tutte le Melanie Griffith in carriera dell'epoca – ma anche dei Michael Douglas di Wall Street, considerato che Frank fu il primo a portare in America l'abbigliamento maschile di Giorgio Armani, ora considerato oltreoceano uno dei simboli assoluti dell'italianità al pari di Sophia Loren e Marcello Mastroianni – a stupire e affascinare era la magia di quelle vetrine, che raccontavano meglio di un libro storie delle quali gli abiti erano protagonisti assoluti.

Barney's President Fred Pressmanpinterest
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Fred Pressman, figlio del fondatore Barney

A Fred succederà Gene, ed è qui che iniziano, secondo molti, i guai: "Gene aveva una grande visione, ciò che gli mancava era il senso della misura", ha detto al WWD Doug Teitelbaum di Homewood Capital, fondo che aiutò Barneys, insieme a Whippoorwill Associates, quando il negozio dichiarò fallimento per la prima volta, nel 1996. "Era capace di selezionare marchi europei che non erano ancora presenti in America, o fare una selezione molto precisa di una collezione: sapeva quello che avrebbe funzionato, e gli americani ne apprezzavano lo stile, divenuto poi sinonimo di Barneys. Però quella visione deve essere accompagnata da un certo rigore economico, che a Gene ha sempre difettato". Fu Gene, in effetti, a volere l'espansione dello store che aprì in diverse città americane (da Dallas a San Francisco passando per Scottsdale in Arizona e Las Vegas) , ma soprattutto il grande flagship store che fu aperto nel 1993 sulla ben più lussuosa Madison Avenue. All'opening, intervengono Bianca Jagger e Ian Schrager – cofondatore dello Studio 54 e del concetto stesso di boutique hotel –al piano a suonare c'è Barry White. Gli affitti più cari, però cominciano a farsi sentire, e Barneys accumula debiti col partner giapponese Isetan, senza nel mentre adeguarsi ad un mercato che sta velocemente cambiando. Secondo fonti anonime, intervistate sempre da WWD, " negli Anni 90 le protagoniste erano le borse, e poi le scarpe (e in effetti tra la sua collezione di Jimmy Choo e Baguette di Fendi, Carrie Bradshaw era nel 1997, incarnazione televisiva perfetta di tutte le donne americane, nuove esploratrici del Klondike delle it-bag e delle it-shoes, ndr), e poi Internet e i social media hanno fatto il resto. Tutti i negozi si sono messi in coda, seguendone il trend, ma la regola da Barneys non era seguire gli altri, ma concentrarsi sulla creatività, sulla ricerca di marchi nuovi". Un'offerta immensa, quella di Barneys – dove però non sono mai approdati marchi come Louis Vuitton e Chanel – che forse diluiva, tra tutti quei vestiti e pellicce milionari, una personalità che invece era ben identificabile, nata e cresciuta a Chelsea, insegna che fu poi chiusa dopo qualche anno dall'apertura del negozio sulla Madison, trasformandosi tristemente in un Lohemann's, grande magazzino senza le grandi pretese di Barneys, e di Gene.

Gene Pressman at boutique at Barney's for Isabel Toledo Design - New York, 2001pinterest
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Gene Pressman nel 2001

Ciuffo alla John John Kennedy e ambizioni non da meno, Gene non fu però capace di staccarsi da un modello che aveva portato al successo suo padre – comprese quelle vetrine che facevano satira anche su icone del pop come Madonna e Oprah Winfrey – e prevedere l'avvento epocale di Internet e degli e-commerce. "Non fu mancanza di volontà" dice oggi chi era presente nei primi anni della digital-economy, "ma era un mercato che richiedeva molti soldi, e ci si chiedeva, con molta praticità, se ne sarebbe in fondo valsa la pena". Moda Operandi, Farfetch e Net-à-porter hanno poi dato delle sonore risposte a questi interrogativi, ma era ormai troppo tardi, e insieme a quell'occasione, recuperata in ritardo massimo, Barneys ha cominciato a perdere lo smalto, quella patina di glamour irradiata dal negozio di Chelsea, che attraeva donne e uomini di downtown e Manhattan, come i marinai con le sirene dell'Odissea omerica. Dopo il primo fallimento, che ha messo fuori dalla porta i Pressman, e fatto rilevare il brand al gruppo Istithmar le cose non sono migliorate: i negozi guadagnavano, ma erano troppi, e a quell'indirizzo di Madison, dove pure a cappotti e borse veniva regalato uno spazio da protagonisti assoluti, mancava l'anima. Una grande scatola di design piena di vestiti e vuota di senso, privata dei sogni. Il proprietario di quell'indirizzo sulla Madison dove Barneys era in affitto, comincia però a bussare alla porta, per riscuotere le mensilità non pagate, e alzare il prezzo. Barneys si rifiuta e si finisce in tribunale, che sancisce diversi anni dopo (nel luglio di quest'anno), che la società immobiliare Ashkenazy Acquisitional, ha ragione da vendere, e affitti arretrati da incassare. Nel frattempo, in una spirale di negatività il personale inizia a perdere motivazione, quel pessimismo permea le pareti dei negozi, che si svuotano: da Barneys sulla Madison si continua ad andare, ma per andare a mangiare da Fred's, mentre lo shopping si fa da Nordstrom, con commesse tutte sorrisi e fiducia nel futuro. Del 2016 è la mossa disperata di tornare a Chelsea, con un negozio di design con la scala à la Oscar Nieyemeyer che nulla aveva a che fare con quella originale, a spirale, disegnata da Andrée Putman. L'unico risultato di questo nuovo negozio, è quello di allontanare ancora di più i clienti dall'indirizzo di Madison Avenue. Di quest'agosto è invece il secondo Chapter 11 del marchio, ovvero la richiesta di bancarotta. All'asta a ottobre si presentano due compratori, Sam Ben-Avraham, di Liberty Fairs Fashion Group (ABG), società che organizza saloni americani della moda, e l'Authentic Brands Group, che mette subito in chiaro le sue intenzioni di liquidare per sempre i grandi magazzini.

Anna Wintourpinterest
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Anna Wintour

Qualcuno parla di un interesse di Farfetch, che si affretta a smentire. La spunta l'ABG. Parte allora la maratona di Avraham, che, complice la proroga straordinaria del tribunale di una settimana, per permettere ad eventuali altri compratori di acquisire l'azienda senza chiuderla, lancia la campagna digital @savebarneys, per raccogliere adesioni e superare l'offerta di ABG. Troppo poco, troppo tardi. Piano piano, tutte quelle insegne chiuderanno, fino ad arrivare sulla Madison Avenue, che, secondo le prime intenzioni di ABG, rimarrà aperta per altri 12 mesi. Il chiodo più doloroso su quella bara dell'imprenditorialità americana – che si è fatta prendere la mano – sarà però il fatto che, secondo ABG, Barneys ricomincerà il suo percorso tornando a essere un piccolo negozio, ospitato all'interno dei grandi magazzini arci-nemici, quelli di Saks Fifth Avenue. Gene non l'avrebbe sopportato, ma forse Barney, scomparso nel 1991 e che da un civico di Chelsea, lontano dal glamour e dal clamore, è partito, avrebbe avuto un'altra opinione in merito.