Sono la prima coppia, regolarmente sposata da più di dieci anni, a firmare a quattro mani una collezione dal nome e dall’estetica potenti, precisi, definiti: Jil Sander. Luke e Lucie Meier, canadese lui, svizzera lei, sono i guest designer di Pitti Uomo 97. Ed è proprio a Firenze, al Polimoda, che si sono incontrati per la prima volta. E da allora non si sono più lasciati, anche se le loro carriere hanno dapprima seguito strade diverse. Luke ha una grande competenza nella maglieria e nello streetwear di lusso, essendo stato l’head designer di Supreme e poi il fondatore di un altro osannatissimo brand da Millennial, OAMC. Per Lucie, invece, un percorso nei rarefatti atelier di Louis Vuitton, Balenciaga, e infine il Raf Simons alla guida di Dior, prima dell’arrivo di Maria Grazia Chiuri.

Pulizia non vuol dire sfornare solo abiti sartorialmente inappuntabili

“Eleganza e forza” sono i pilastri su cui fondano un linguaggio del vestire che, già messo a punto, ormai quasi 50 anni fa, dalla fondatrice del brand. Linguaggio che è stato spesso ridotto alla semplicistica definizione di “minimalismo”, quando invece si concentra nello sforzo creativo di comunicare il massimo di cose (chic, sostenibilità, purezza, originalità), con il minimo dei segni. Laddove linearità non significa essere banali, e pulizia non vuol dire sfornare solo abiti sartorialmente inappuntabili. Già l’invito alla sfilata fiorentina, tenuta nel refettorio di Santa Maria Novella, epitome e metafora di un’architettura spirituale che diventa forma ed espressione esattamente uguale a quella dei coniugi Meier, condensa una riflessione specifica. È una scatola bianca, avvolta in un foulard candido, “sporcato” dall’acquerello di un lupo che ulula. E dentro, una confezione di profumatissime pastiglie di cera per la biancheria firmata dalla Farmacia di Santa Maria Novella. Ovvero: il barbarico contro - o “con” - la raffinatezza assoluta. La bellezza naturale, contro - o con - quella creata dall’uomo. La responsabilità di un pianeta sempre più disperato per nostra massima colpa contro - o con - la possibilità di cambiare in meglio anche attraverso la moda.

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Pietro D'Aprano//Getty Images

Sui pavimenti del refettorio, due montagne di “tagete”, il garofano indiano simbolo di purezza e sacralità. La moda è concepita da Luke e Lucie come un unicuum progettuale: “meglio acquistare un nostro capo adesso e magari un altro nella prossima stagione”, sostengono. Così come sono consapevoli che l’essenzialità è una conquista e non una facile scorciatoia per una moda “facile” da produrre e da indossare. Annullano le distanze tra formale e sportivo con una serie di completi dalla silhouette solida eppure profondamente spirituale. I cappotti hanno cadenze da saio, i pullover oversize sembrano abiti talari, i mantelli assomigliano tuniche da monaco orientale. Eppure tutto è preciso, tagliato chirurgicamente, puntuale: in bianco, nero, burro, biscotto, cammello o verde petrolio.

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Luke e Lucie credono nell’abito come un perimetro ben delimitato dentro cui far apparire emozioni

Unica concessione al decoro: dei piccoli charm in argento che pendono dai capi come offerte votive. Luke e Lucie credono nell’abito come un perimetro ben delimitato dentro cui far apparire emozioni: in un materiale prezioso e solo rigorosamente naturale, in una piega imprevista. “Si tratta di andare avanti alla ricerca di equilibri”, dice Lucie, forte anche dell’esperienza di aver lavorato con un designer, Raf Simons, che da sempre tiene insieme il punk e l’alta moda, il classico e l’avanguardia. “La nostra missione è sfatare il cliché del minimalismo freddo, serializzato, grigio. Nei nostri abiti non c’è niente di superfluo, perché quando cerchi la luce, non vuoi ostacoli in mezzo”, assicura Luke. Ed è sempre alla pari con Lucie. “Non litighiamo mai, tranne quando camminiamo: lei è molto più veloce di me e io faccio fatica a tenerle dietro”, ha confidato lui al New York Times.

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