Quando un designer, di quelli che appartengono alla generazione slash di performer/stilisti/dj/pensatori/celebrity/attivisti come Telfar Clemens conia una nuova parola, vuol dire che ha anche nuove idee. Vedi il poliedrico 35enne liberian-americano, da 15 anni brillante protagonista della scena underground newyorkese con il marchio eponimo, sconosciuto alla cultura mainstream almeno fino al 2017, quando ha vinto il CFDA (l’Oscar della moda americano, assegnato dal Council of Fashion Designers of America. Per il suo stile parla di “simplexity”, sciarada tra “simple” e “complexity”. Un perfetto esempio di quel dichiararsi “agnostico ai trend” che lo caratterizza da quando ha iniziato a disegnare abiti senza regole né sesso. Telfar è cinicamente buono o bonariamente cinico: pronto a lottare per i diritti civili, ma anche a diventare supercommerciale.

Una passerella circolare luminosa come un’astronave ospita creature tra il punk e il Settecento

“Voglio diventare Michael Kors, ma di proposito”, è la sua frase-mantra. Detto, fatto: la sua borsa in eco-pelle, decorata con il logo in rilievo che somiglia tragicamente a quello di Sergio Tacchini (azienda presente con un grande evento qui a Pitti Uomo 97, cosa che ha creato parecchi incidenti di riconoscibilità e di senso) è diventata una specie di lasciapassare per la loggia di un gusto antimoda e anticonformista. Lui e il suo partner Babak Radboy hanno creato la Shanzai Biennal, che non è una mostra (Shanzai neanche esiste) ma un progetto di moda, arte e commercio che raduna brand famosi, in versione taroccatissima. Infatti, prima di essere scoperto dal mondo della moda, Telfar ha esposto le sue creazioni in tutto il mondo: il Guggenheim e il New Museum a New York, la Serpentine a Londra. Una retrospettiva del primi 10 anni viene presentata alla IX Biennale d’arte contemporanea a Berlino. Onore e gloria a Pitti che lo invita come guest designer a Palazzo Corsini. Una passerella circolare luminosa come un’astronave ospita creature tra il punk e il Settecento, con un soundtrack in diretta che pesca dall’elettronica, dalla classica, dalla dodecafonica, dal rap.

Telfar Fashion Show At Pitti Immagine Uomo 97pinterest
Pietro D'Aprano//Getty Images

Modelli longilinei - quasi tutti di colore - indossano giacconi tecnici, pantaloni a zampa, camicie con jabot. È un assemblaggio che è il risultato di una ricognizione nella storia della cultura black americana. Sintomatica l’uscita finale, una sorta di divisa da valletto con pantaloni al ginocchio livrea e parrucca bianca con codino che contrasta dolorosamente con la pelle nera del modello. Un chiaro riferimento al periodo schiavista born in the Usa. E poi c’è Shaft il detective, Django Unchained, Bob Marley e i suoi nipotini nati nel Queens. Se tutto è rigorosamente unisex e apparentemente frutto del “do it yourself” il messaggio politico è forte e chiaro: c’è ancora differenza nella patria dell’uguaglianza. Quella di Telfar è una performance divisiva, ma del tutto andata a segno nel gesto di una provocazione che precede quella di Stefano Pilati con Random Identities alla Leopolda. Due persone che hanno origini, culture e referenze diverse (Pilati che proviene dalla couture italiana, Telfar dal Queens e, come massima prova di adesione al mercato della moda ha realizzato le divise della catena di fast food “White Castle”, dove ha organizzato un memorabile happening), ma uniti da una grande onestà di fondo che, alla fine, fa loro affrontare le stesse tematiche: il gender gap, l’inclusività, il voler entrare nella conversazione tra libertà creativa e capitalismo che vede solo numeri e fatturati.

Telfar e Pilati sono così pimpanti da sembrare sempre emergenti
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Telfar e Pilati sono moltiplicatori di stimoli e dibattiti. Così pimpanti da sembrare sempre “emergenti” Anche perché sia i capi e gli accessori di Telfar, sia quelli di Pilati per Random Identities provengono dall’esperienza di una vita trascorsa tra la gente che lavora, si diverte, va in vacanza o si aggira per le strade. Il risultato non è, per loro, lo sviluppo di un banale “streetstyle” che no, non ci voleva Virgil Abloh a dirci che morto e sepolto. Non lo è, come non lo è il classico: e i capi di Telfar e Pilati, nella loro “simplexity”, indossati da uomini, donne e tutte le sfumature degli orientamenti sessuali che ci sono in mezzo. Quella di Pilati, per esempio, è una collezione che trasuda modernità da ogni fibra, eppure gioca con gli elementi del vestire perbene dileggiati, contraddetti, messi in discussione: se l’hashtag del défilé è #prepping, in omaggio al “preppie” altoborghese degli anni 80, il reggiseno si trasforma in collana da portare sulla camicia candida; il cappotto con la cintura in vita è rivitalizzato dagli stivali con tacco altissimo; le trasparenze si alternano alle suggestioni militari. Di certezza non resta che l’incertezza: l’ambiguità sessuale è uno filosofia di vita che nulla ha di ambiguo. Quello che turba - e meno male che qualcosa ancora ci turba - è l’eleganza, la classe, la sofisticazione che rende tutto desiderabile. Si sentono echi del Visconti de “La caduta degli dei”, di “Cabaret” di Bob Fosse, della serie tv “Berlin Babylon”, dei libri di Isherwood e dei quadri di Grosz. Ma anche della Berlino più giovane e vibrante che fa evaporare gli steccati tra maschio/femmina, lavoro/tempo libero, seduzione/sedizione. E in questo, più che in Telfar, ci spiace diventare patriottici: ma solo un italiano colto come Pilati - che si riserva l’ultima uscita - può unire tutti i puntini in una collezione che è racconto di un’epoca inquieta e però fa venire voglia di riaprire i guardaroba.

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