L’hanno trovato. O meglio hanno trovato il suo corpo a Montauk, in un parco vicino alla sua casa e ancora non ci credo… Peter Beard ci ha lasciato così come era vissuto.

Il 31 marzo scorso la moglie aveva denunciato che era scomparso, aveva 82 anni e soffriva di demenza, ma speravo fosse uno dei suoi soliti scherzi e che sarebbe riapparso improvvisamente dal nulla, come aveva fatto con me, nel 1997 quando proprio nel suo cottage a Montauk ero andata a scattare un servizio celebrativo per i 10 anni di ELLE Italia, coronati con una sua mostra personale a Palazzo Reale, nella Sala delle Cariatidi a Milano.

Me lo ricordo come fosse ieri: agitazione e adrenalina a mille, atterrata a New York mi ero precipitata a vedere la sua retrospettiva: “Carnets Africains” The Times is Always now, al 476 di Broome Street, volevo essere pronta per lavorare con lui che era, ed è da sempre, uno dei miei artisti/fotografi preferiti, un avventuriero, un amante dell’Africa.

Le immagini mastodontiche degli elefanti, le sue fotografie dentro a corpi di coccodrillo e i diari stupendi fatti di collage, sangue e sudore mi lasciarono senza fiato. Comprai un suo libro, volevo farmelo autografare alla fine dello shooting!

E con queste intenzioni partii per Montauk.

Premetto che non avevo mai parlato al telefono con lui, ma almeno duecento volte con il suo agente Peter, e l’ansia di incontrarlo saliva.

Dopo due ore di auto arrivammo al cottage di fronte all’oceano, e lui era lì. Mi sudavano le mani, non capivo più niente e farfugliai parole, il mio nome e perché ero lì. Peter Beard mi accolse in kikoi, il pareo africano di cotone, e a piedi nudi come lo abbiamo visto molte volte nelle fotografie sui giornali o nei libri, mi abbracciò stretta e il suo sorriso a trentadue denti mi spiazzò. Indimenticabile, oggi ancor di più.

Al mio entusiasmo di realizzare il servizio si aggiunsero altre scoperte. Un giro del cottage: a ogni angolo foto di Andy Warhol (era il suo studio), Bianca e Mick Jagger, Truman Capote, Jacqueline Kennedy e sua sorella Lee Radziwill (una delle sue donne)… tutto il jet set americano e non, in semplici quadretti da lui decorati come le foto incorniciate di famiglia che abbiamo a casa nostra con i parenti.

Il cottage era stupendo, in legno bianco all’esterno e all’interno in legno scuro molto spartano e semplice, con una grande cucina (il fulcro della casa, con una grande porta che dava sull’Oceano) dove poi scattammo una parte del servizio. Le supermodel cucinarono in grandi pentoloni fumanti di niente….un po’ come delle streghe e posarono per lui sul prato di casa appoggiate a tartarughe giganti, oppure nella sua adorata spiaggia fatta di sassi con cui assemblava i collage per renderli vivi, come solo lui sapeva fare.

Mentre stavo per congedarmi per ritornare in hotel a farmi una bella doccia, lui mi disse sorridendo: «Abbiamo annullato la tua prenotazione in albergo, starai qui con noi per i prossimi giorni». Io che sono timida ebbi attimi di smarrimento.

Lì mi resi conto di quanto fosse un uomo libero, un gentiluomo che aveva vissuto mille avventure. Lo raccontavano il suo corpo pieno di cicatrici e i suoi piedi consumati, che appena possibile evitavano le scarpe chiuse…

Mangiammo poco e non mi ricordo neppure cosa, ma ricordo che la cena era frugale e si mangiava solo con le mani. Nel frattempo arrivano i suoi amici: l’artista Julian Schnabel che gli riportava la figlia Zara, un regista di cui ho scordato il nome e una sua amica stupenda, selvaggia quanto lui, che sembrava non si fosse mai pettinata in vita sua, ma sprizzava eleganza e stile anche in camicia bianca e jeans! Andai a letto ma non riuscivo a dormire, mi domandavo chi avesse dormito in quel letto, che cosa fosse successo in quelle mura. Ma il jet-lag prevalse e mi addormentai sentendomi un po’ fiera, un po’ stanca.

La mattina mi svegliai molto presto sentendo un sacco di rumori in casa, mi avvicinai alla cucina e lui era ancora lì dove l’avevo lasciato la sera prima, a fumare e bere con gli amici che sembrava non smettessero di arrivare, sempre con il suo kikoi.

Beveva il caffè, e sdraiato a terra stava dipingendo sul suo libro che avevo comprato e gli avevo mostrato la sera prima: aveva fatto l'impronta del suo piede e scritto la dedica. E non gliel’avevo neppure chiesto. Ero in heaven!

All’alba, erano le sei, si congedò dicendomi che andava a fare un tuffo nell’Oceano. Alle 12 non era ancora tornato e le modelle cominciavano ad arrivare al cottage, ognuna con la sua auto: Chandra North, Janina Davis, Magali, Jasmine Ghauri e tante altre top. Ma lui era svanito. Finalmente all’una è rientrato: nudo, si è infilato nella doccia per poi riapparire con tutto il suo charme e finalmente cominciammo a scattare.

È stata una delle esperienze più belle della mia vita e devo ringraziare il mio direttore di quegli anni, Daniela Giussani, per avermi dato la possibilità di conoscere un uomo straordinario e stravagante come lui. L’averlo conosciuto mi gratifica moltissimo come persona e come redattrice di moda. La sua è stata veramente una vita da film (speriamo lo facciano presto, magari con la regia del suo amico Julian Schnabel): l’Africa, aver scoperto la super top model Iman, l’incontro a Nairobi con Karen Blixen fotografata con la sua inseparabile macchina fotografica: Voigtländer, lui attaccato da un elefante che gli ruppe quasi l’arteria femorale rischiando la vita, uno di quegli animali per la cui conservazione si è speso, l’incendio che ha quasi distrutto i suoi diari (che collezionava dall’età di 8 anni), le numerose mogli, il Calendario Pirelli. Un artista, un amante della vita, un grande viaggiatore ma anche un uomo fragile che non riusciva a sfuggire ai suoi demoni, frutto di una vita vissuta senza freni né inibizioni dalla savana al jet-set più esclusivo di New York e Montauk. Nei suoi collage ha rappresentato la natura, la moda, l’arte, ma anche fatti di cronaca come l’incidente di Lady D.

Ha raccontato la generazione degli anni Settanta e Ottanta con tutto il loro glamour e il loro lato oscuro fatto di sesso, droghe e rock& roll.

Lo voglio ricordare così con il suo sorriso e la sua arte-fotografica difficile da classificare, che mai come in questo momento ci riempie gli occhi e la mente di soggetti e paesaggi che chissà quando potremo rivedere. Nel su e giù altalenante della vita, concluso nella demenza senile degli ultimi anni, alla fine si è perso nel parco vicino a casa, nella natura che tanto amava. Ci mancherai Peter.