Costruire business globali e di successo, e rimanere attaccate alle radici – quelle di madre Terra –rispettando l'ecosistema nel quale viviamo e che ci ha accolto, con pratiche sostenibili e senza sfruttarne le risorse. Sembra un ossimoro, soprattutto quando si parla di moda, la seconda industria più inquinante al mondo, ma, per alcune tra le protagoniste del mercato globale del fashion, semplicemente, non c'erano alternative. Quando gli scienziati avvertono che, a questi ritmi, entro il 2050 l'innalzamento delle temperature renderà alcune zone della Terra non più abitabili, mettendo a rischio molte specie di animali, la consapevolezza di trovarsi di fronte a una necessità impossibile da procrastinare può portare chi sente di avere una maggiore responsabilità verso l'ambiente, a comportarsi di conseguenza: così è successo ad alcune donne che, in fasi diverse della loro vita, hanno deciso di fondare dei brand ecosostenibili o convertire i propri marchi con una forte impronta green.
Un caso è quello di Gabriela Hearst, che da quando ha fondato il brand omonimo, nel 2015, ha puntato tutto sulla sostenibilità e su un progetto a lungo termine. Nata in Uruguay, dove la famiglia possiede un ranch da più di sei generazioni "la sostenibilità è sempre stato un approccio obbligatorio per me", spiega. "Nella casa di famiglia ci sono ancora i mobili dei miei bisnonni, nulla è stato mai buttato. A livello di strategia di mercato, ho sperimentato come sia un approccio di successo: è un abitudine, e come tutte le abitudini è più difficile all'inizio, ma quando ne vedi i risultati, non puoi tornare indietro". E tra i risultati che Hearst ha raggiunto, ci sono una primissima collezione lanciata in collaborazione con Manos del Uruguay, cooperativa no profit che aiuta le donne uruguyane situate in zone rurali, a cui Gabriela ha affidato la realizzazione dei suoi maglioni cuciti a mano. Le borse, invece, sin da sempre, sono prodotte in quantità limitate, per contrastare la sovrapproduzione, altro grande problema del sistema modaiolo che produce molto di più del necessario, mentre nel 2017 sale per la prima volta sulla passerella (della fashion week di New York) con una collezione realizzata al 30% con scarti di produzione, ovvero tessuti che altrimenti sarebbero stati semplicemente buttati. Le sfide imposte dal cambiamento climatico non ne hanno però limitato la creatività, anzi: ha creato un lino trattato con l'aloe, fibra naturale molto più completa del cotone, in quanto assorbe meno acqua durante la produzione, e un'altra consistenza tessile che usa per profilare giacche e cappotti, e impedisce alle radiazioni dei cellulari di raggiungere gli organi riproduttivi femminili. A oggi è stata la prima ad organizzare una sfilata carbon neutral, mentre anche per il packaging ha deciso di puntare su TIPA, alternativa bio lanciata nel 2010 da Daphna Nissenbaum e Tal Neumann per contrastare lo spreco della plastica: totalmente compostabile – in 6 mesi di tempo si ricicla e ritorna alla natura, senza causare danno – è l'unico tipo di materiale da lei utilizzato per i pacchi. Così è divenuta plastic-free, sostituendo alle classiche grucce in plastica, quelle realizzate in cartone riciclato. La prossima sfida? Quella di utilizzare entro il 2022 solo materiali riciclati, e non fibre vergini.
Ad aver adottato invece l'approccio green più avanti nella sua carriera – sorry, prima era occupata a inventare il punk con il compagno Malcom McLaren, storico manager dei Sex Pistols – è stata Vivienne Westwood, che nel 2012 ha lanciato il sito Climate Revolution, per consapevolizzare i suoi clienti – ma anche tutti gli altri – sulle conseguenze drammatiche che potrebbe avere l'innalzamento della temperatura e il consumismo sfrenato, e ancora prima, nel 2007, aveva presentato un suo Manifesto "Active resistance to propaganda"dove sostiene che l'arte, e di conseguenza la moda, è un mezzo per sensibilizzare sulla questione ambientale, e cambiare il proprio modo di agire, non rimanendo "animali auto-distruttivi, vittime della propria intelligenza". Appassionata dell'Africa, vero continente madre, ha realizzato nel 2009 una collezione di borse prodotte da artigiani di Nairobi utilizzando solo materiali riciclati in collaborazione con l'Ethical fashion initiative dell'International trade centre (Itc), un organismo congiunto delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale del commercio che sostiene il lavoro di migliaia di donne, residenti in comunità africane emarginate. Nel 2014, invece, ha collaborato con l'organizzazione no profit Farms not factories realizzando t-shirt e borse con cotone proveniente da una filiera etica – e che per trasformarsi in un abito o in un accessorio quindi vengono tinti con tinture naturali e utilizzano una minore quantità d'acqua per i lavaggi. Il prossimo obiettivo? Nel caso di un'icona del punk, non poteva che essere rivoluzionario: una mostra d'arte con lo scopo di raccogliere un milione di sterline e risanare le foreste pluviali.
Infine, ad aver sempre saputo, sin dai suoi 20 anni, che non si poteva pensare a un brand di moda senza tenere fede alla missione green, è Stella McCartney. E certo, il merito di questa sua consapevolezza raggiunta in età giovanissima, è sicuramente della madre, Linda, donna dai mille traguardi. La prima fotografa donna a ritrarre nei suoi scatti le rock band più significative degli Anni 60, dai Rolling Stones ai Beatles – di cui sposò ovviamente Paul – era sostenitrice del vegetarianesimo e della protezione degli animali, cause che introdusse con naturalezza nella famiglia con il marito e i figli, Mary, James, e ovviamente Stella. Attivista per la PETA – tanto che l'organizzazione creò un premio in suo onore – e ingegnosa imprenditrice, aveva anche creato una linea di prodotti vegetali congelati, Linda Foods, acquistati poi dalla Heinz Company. Non stupisce quindi che Stella abbia deciso di costruire un brand inattaccabile nel suo approccio sostenibile.
Dal 2001, infatti, molto prima che la questione divenisse di "moda", Stella McCartney non utilizza pelli, piume o pellicce: una scelta dovuta non solo al suo regime alimentare, ma anche al fatto che gli allevamenti intensivi contribuiscono per il 18% alle emissioni mondiali di gas serra. Stesso discorso per le colle, che molto spesso vengono prodotte bollendo tessuti animali: quelle del suo brand non lo sono, e dove possibile, si realizzano a base di acqua. Un lavoro di fino, che studia modalità per ridurre l'impatto ambientale fin nei dettagli, come ad esempio quello delle suole delle scarpe, in Apinat, una plastica vegetale e biodegradabile, l'eliminazione del pvc, la plastica più tossica per l'ambiente, e l'utilizzo di un bio-acetato composto da polpa di legno di agricoltura responsabile, alternativa naturale al tessuto sintetico. Infinite le espressioni nelle quali si articola questa filosofia, come l'utilizzo del cotone organico, coltivato senza l'uso di pesticidi tossici e utilizzando il 70% in meno di acqua, o l'utilizzo del poliestere riciclato (ci vogliono 70 miliardi di barili di petrolio per produrre il poliestere e il nylon usati nell'industria tessile ogni anno, mentre quello riciclato richiede meno della metà dell’energia per essere prodotto). Un approccio a 360° che ha portato il brand a realizzare una collezione s/s 2020 prodotta al 78% con materiali sostenibili (il 100% del denim è biologico, così come il 90% del cotone). Creando brand globali, etici, e già proiettati in tutti gli Earth Day del futuro.