Cosa rende italiana la moda italiana (anche sotto l'egida francese)? L’artigianato, il denominatore comune di simboli e allegorie, oppure qualcos’altro che ci renda unici e unificati? Qual è il confine tra folklore e tradizione? Cosa bisogna celebrare, di un territorio: il passato o il presente? Domande che vengono in mente dopo aver visto (come praticamente tutti, in streaming) la collezione Resort 2021 di Maria Grazia Chiuri per Dior a Lecce. Meta scelta come omaggio a suo padre, originario di Tricase, comune non lontano dalla città del barocco, ma anche come tributo a un’Italia sempre più smarrita, in crisi (anche economica) e spaventata da ciò che è accaduta e ciò che potrebbe accadere. È quindi difficile poter giudicare una sfilata solo per i vestiti, dato l’impegno profuso dalla direttrice creativa nel coinvolgere maestranze locali ed eccellenze pugliesi.
Dal regista Edoardo Winspeare, autore del bellissimo corto sulla città, privo di qualsiasi svenevolezza pittoresca, all’artista Marinella Senatore che usa le luminarie da festa patronale come materia per i suoi lavori, dove insinua frasi e aforismi tra le mille lucine colorate realizzate dai Fratelli Parisi, il cui atelier risale dal 1876. Dall’alleanza con la Fondazione Le Costantine, un centro di servizi formativi che produce anche tessuti a telaio e che ha realizzato la scritta «amando e cantando» che si leggeva su molte gonne, l’artista Pietro Ruffo che ha reinventato il fiore Miss Dior ma anche il motto «Les parfums sont les sentiments des fleures», fino al musicista Paolo Buonvino che ha scritto la colonna sonora eseguita dall’Orchestra Roma Sinfonietta. (senza dimenticare l'ambassador della maison, l'italianissima Chiara Ferragni). Tutto giusto, tutto corretto, tutto rispettoso: eppure, al netto delle discussioni locali (molti leccesi hanno trovato inappropriato l’aver ricoperto la facciata del Duomo) c’era un’atmosfera - la pizzica, la festa di piazza, i ballerini in camicia bianca e pantaloni neri, Giuliano Sangiorgi che saluta alla fine il pubblico dicendo «Saluti dal Sud del mondo!» manco fosse a Ushuaia - che in un certo senso restituiva un’aria da “cartolina da giù”, anche se gli abiti erano comunque lontani da qualsiasi forma di facile citazionismo: Chiuri è troppo intelligente per cadere nella trappola della retorica patriottarda.
Però Fernand Braudel dice che «una nazione non può essere che a prezzo di cercarsi senza fine». Di qui l’idea che se questa ricerca si interrompe, anche nella sua presentazione, se non si alimenta costantemente l’immaginario del condiviso e del condivisibile, se non si aggiorna con metodo l’annuario dei contrassegni, si rischia di abbandonare il concetto di nazione per cadere, appunto, nel folklore. Si dirà: Dior è una maison francese e lo show impone le sue regole per accattivare almeno 20 milioni di persone, se non di più, sparse nel mondo. Persone che, si spera, una volta finita la buriana del Covid-19, torneranno a spendere e a comprare come e più di prima. Sarà così? Vedremo: ci rendiamo del resto conto che i fatturati delle cruise e delle resort collection sono quelli che danno più sostanza ai ricavi, permangono più a lungo sui siti di e-commerce perché di prezzo un po' inferiore alla prima linea. Ma in un momento come questo, vedere un défilé assolutamente impeccabile ma quasi asettico nel presentare un’Italia "come ce la si aspetta" lascia un turbamento difficile da spiegare.
Per i bizzarri giochi del destino, Pierpaolo Piccioli (che proprio con la Chiuri condivise la direzione creativa di Valentino dal 2008 al 2016 e da allora rimasto unico al comando), il giorno prima ha presentato a Roma la sua performance artistica per la Couture 2020/21 negli studi di Cinecittà, in partnership con il grande fotografo e video maker Nick Knight. Ed è stata una seconda immagine italiana dai riferimenti altrettanto popolari come quelli della sfilata Resort di Dior, fatte le dovute differenze con quest’ultima che proponeva capi da vendere: la nostrana fabbrica dei sogni, i riferimenti al cinema di Federico Fellini (specialmente i costumi di Piero Gherardi per Giulietta degli spiriti) e Il Gattopardo, le citazioni di un altro Pier Paolo: Pasolini («Non vogliamo essere subito già così senza sogni», da una poesia delle Lettere luterane).
Elementi che sono serviti a rendere visibile come si possa promuovere il messaggio della moda come trionfo della fantasia: le videoproiezioni floreali volutamente vittime di un glitch, un errore di trasmissione, le musiche di FKA Twigs composte per l’occasione, ma soprattutto le 15 creazioni afflitte da gigantismo, candide e immerse nel buio, con le modelle messe su crinoline monumentali o tuniche di fili brillanti lunghe fino a cinque metri, hanno ristabilito una conversazione tra abito, arte e necessità di vestirsi come estensione del desiderio. Un esperimento emozionante e spettacolare, di cui sarà interessante vedere la traduzione in capi indossabili, oltre questa magniloquente presentazione, dal fortissimo impatto ma confinante più con l’arte che con l’abbigliamento.
Per concludere, una piccola riflessione a latere: mentre Chiuri, per la Couture Dior, aveva chiamato Matteo Garrone per un film che univa il mito di Ninfe e fauni con il recupero del Théâtre de la mode, una mostra che nella Francia squassata del dopoguerra portò al Louvre le creazioni dei grandi couturier in scala ridotta su manichini-bambola, ecco che Piccioli ha sfidato un’estetica superdimensionata, ha voluto la grandiosità fisica e mentale, ha accolto l’enormità della meraviglia.
E forse è questo un dato comune all’italianità della moda che vorremmo sempre più presente: che sia miniaturizzata o espansa, ha la vocazione al sogno concreto, all’immaginazione trasformabile in tangibilità.