C’era una volta il calzolaio di Cenerentola. Con tante scarpette invece di una, compreso un sandalo non di vetro ma pur sempre invisibile (era fatto con fili di nylon intrecciati) che, nel 1947, gli fece vincere il premio Neiman Marcus, l’Oscar della moda. La vita di Salvatore Ferragamo sembra una favola. Il regista Luca Guadagnino l’ha ripercorsa nel suo documentario, Salvatore – Shoemaker of Dreams, presentato al Festival del Cinema di Venezia 2020 (Fuori Concorso) e prossimamente nelle sale, distribuito da Lucky Red.

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Jacopo Salvi

Sviluppata in rigoroso ordine cronologico, la vicenda parte da Bonito, il paesino in provincia di Avellino, dove Ferragamo era nato nel 1898, l’undicesimo di 14 figli. Una famiglia di contadini la sua, non ricca ma neppure in miseria, e con i piedi per terra, in senso proprio e metaforico, che, all’inizio, fece fatica a comprendere il suo amore per le scarpe. Un mistero, tutto sommato, anche per lui che, come ha raccontato nella sua autobiografia, non si spiegava le origini di quella che appare subito come una passione-ossessione. «Era come se sapessi già come realizzare una calzatura, come se lo avessi da sempre dentro di me», scriveva. E lo stesso dice nel documentario, che utilizza stralci del libro a commento-narrazione (la voce è quella dall’attore Michael Stuhlbarg), oltre alla testimonianza diretta dello stesso Ferragamo, recuperata grazie alle registrazioni di vecchie interviste radiofoniche.

Una vita non lunghissima la sua (morirà nel 1960, lasciando la moglie Wanda, di una trentina più giovane di lui, con i sei figli, alcuni dei quali ancora piccoli), eppure talmente densa di avvenimenti da sembrare infinita. La prima avventura, quando è ancora un ragazzino, a Napoli, dove Ferragamo si trasferisce per imparare a fare le scarpe da un artigiano del posto. Ma non si fermerà a lungo, troppo risicate le cose da imparare rispetto alla sua «fame» e alla sua ambizione. È in America, dove sbarca a 17 anni con pochi soldi in tasca, che Salvatore Ferragamo diventerà un nome. In California, dove si trasferisce presto e dove, negli anni Venti, prima a Santa Barbara, poi a Los Angeles, stava nascendo l’industria del cinema e dello star system. Lì, comincia a lavorare sui set, frequenta corsi serali di anatomia all’Università per capire i segreti della calzata, e diventa amico delle star del cinema muto, che amano le sue creazioni incredibilmente belle e comode. Molti si sarebbero accontenti, ma non lui. Nel documentario seguiamo il suo rientro in Italia, nel 1927, l’incontro con Wanda, che sposerà nel 1940 (E che, nel documentario, racconta i dettagli del loro primo incontro), la scelta di Firenze come luogo d’elezione per il suo laboratorio e la sua famiglia, il crollo finanziario causato dalla crisi del ’29 e la ripresa. Con una nuova generazione di dive - da Sofia Loren e Audrey Hepburn - davanti alle quali Ferragamo continuerà a inginocchiarsi per tutta la vita (ma solo per studiarne i piedi).

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Luca Guadagnino ha messo insieme i filmati dell’archivio di famiglia (Ferragamo era tornato dall’America con una telecamera all’avanguardia), video dell’epoca e interviste. Alla famiglia, agli eredi, ma anche a stilisti come Manolo Blahnik e Christian Louboutin, e a Martin Scorsese (che, secondo Guadagnino, condivide con Ferragamo una storia in qualche modo simile). «Salvatore ha vissuto tutta la sua vita come una sorta di outsider, sempre fuori dal sistema del quale faceva parte. È grazie alla sua costante eccentricità se le sue creazioni ancora oggi fanno parte dell’immaginario collettivo», ha detto Guadagnino al Festival di Venezia 2020, dove è venuto ad accompagnare il documentario insieme alla figlia di Salvatore, Giovanna Gentile Ferragamo e al produttore, Francesco Melzi d’Eril. Aggiungendo: «Mi piace la voglia di rischiare che lo ha caratterizzato fin da bambino. Negli anni, ha fallito e trionfato, ma non si è mai sentito né vittima, né imputabile di arroganza per il suo successo». E a chi gli chiedeva come racconterebbe Salvatore Ferragamo a un adolescente di oggi, ha risposto: «Non ce n’è bisogno. I rapper lo considerano un mito. E i ragazzi sanno che senza le sue creazioni oggi, forse, non esisterebbero le sneakers».