C'è la A racchiusa in un cerchio – a ricordare l'"Anarchy" che guidò il punk negli Anni 70 – tutto l'alfabeto cirillico con la semiotica correlata, oggetto di una rivisitazione priva di politicizzazioni, come quella operata negli ultimi anni dai designer cresciuti oltre la Cortina di ferro, e poi c'è lo smiley, quello nero e giallo con le x al posto degli occhi e un sorriso beffardo – probabilmente indotto da sostanze psicotrope – sinonimo grafico dell'era del grunge e del suo gruppo principale, i Nirvana. Nell'empireo dei grafismi che hanno rappresentato qualcosa di più, di un semplice disegno su carta, ma si sono impregnati di valori – etici, sociologici, rivoluzionari – quel primigenio emoticon, partorito dalla mente di Kurt Cobain, ispirato, si diceva a un logo molto simile, quello del Lusty Lady, strip club di Seattle, ha di certo un posto d'onore.

Difatti negli anni che sono seguiti, quel doodle ha rappresentato, senza bisogno di altri suggerimenti più prosaici, la band di Seattle, e la sua innata vicinanza al mondo del delirio lisergico, stampandosi sul suo merchandising, dalle t-shirt alle borse passando per le felpe, innalzandosi a bandiera di appartenenza di una generazione, definendo un limite invalicabile tra il grunge, e il resto del mondo fuori. Un sorriso che però sta causando parecchio malcontento, e persino una disputa in tribunale, dove a fronteggiarsi ci sono i legali della band – scioltasi dopo la morte del suo cantante Kurt Cobain nel 1994, ma rappresentata dal batterista Dave Grohl, oggi frontman dei Foo Fighters, e il bassista Krist Novoselic – e quelli di Marc Jacobs. Una battaglia legale iniziata già due anni fa, quando la band aveva accusato il creativo di violazione del copyright, per l'utilizzo di quello smiley su t-shirt e calzini del suo brand.

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Una battaglia resa ancora più accesa dalla storia delle passerelle, che hanno visto Marc Jacobs come il primo reale promotore del grunge anche nel reame fatato della moda: la collezione che disegnò per la primavera/estate del 1993, quando era alla guida di Perry Ellis – oggi ampiamente celebrata ma all'epoca molto avversata dai critici, con Suzy Menkes che la definì "terrificante" – era testimonianza su tessuto di quanto stava accadendo nel mondo reale, lontano dalle copertine patinate. Helena Christensen, Christy Turlington, Carla Bruni, Naomi Campbell e Kate Moss, sfilarono in vestitini a maxi-check e cardigan over slabbrati, cappellini in lana, Dr. Martens e t-shirt a righe, ripercorrendo il vocabolario già reso famoso da Kurt Cobain e Courtney Love. Se, nel breve termine, le conseguenze furono drammatiche – Perry Ellis lo licenziò in tronco, per essersi discostato così tanto dalla solita grammatica del ready-to-wear – fu chiaro poco dopo che Jacobs era stato uno dei primi a creare un prodotto desiderabile, nel quale le giovani generazioni riuscivano a rispecchiarsi, tanto poi da lanciarne definitivamente la carriera. Oggi però, i Nirvana vedono in quello smiley – molto simile, ma non uguale, al loro – un tentativo di appropriazione musicale, più che un tributo. Così hanno citato Jacobs per violazione del copyright, accusa alla quale il creativo ha ribattuto con una successiva contro-denuncia, che mette in dubbio addirittura la paternità della creazione. Se è sempre stato dato per certo, infatti, che quel simbolo fosse uno dei tanti attribuibili a Kurt Cobain, abile con la penna tanto quanto con la matita da disegno, i legali di Jacobs sostengono che a crearlo sia stato il graphic artist Robert Fisher, negli Anni 90 impiegato dalla Geffen Records, casa discografica dei Nirvana.

Non essendo direttamente un dipendente della band, e non avendo mai trasferito a loro i diritti per l'utilizzo dell'immagine, risulta priva di fondamento la rivendicazione del gruppo. Lo stesso Fisher ha testimoniato in corte, portando a sostegno vecchi disegni e documenti, a ribadire la paternità del simbolo, asserendo, come riporta Billboard, che "aveva iniziato a disegnare delle variazioni degli smiley nel suo ultimo anno all'Otis College, quando la cultura legata agli acidi aveva raggiunto il suo acme". Al banco dei testimoni sono saliti anche Dave Grohl e Krist Novoselic: se il primo ha affermato di "non sapere chi ha creato lo smiley", il secondo ha aggiunto che "quest'immagine c'è sempre stata, non mi sembra neanche una idea nuova".

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Frank Micelotta Archive//Getty Images
Kurt Cobain nel 1993, durante la performance a MTV Unplugged

I legali di Marc Jacobs, inoltre, sostengono che la originaria procedura di copyright dei Nirvana non fu eseguita correttamente, permettendo quindi allo stilista di utilizzarla, pur modificandola leggermente, nella sua collezione. Al posto delle x originarie, in effetti, sul motivo usato da Marc Jacobs, ci sono le sue iniziali, M e J, dato che ha portato i suoi legali a sostenere che "il creativo usa lo smiley in questione come una mera decorazione, e il disegno non ha alcun segno distintivo, inerente o acquisito. Anche se fosse correttamente protetto dal copyright, non c'è possibilità di confonderli, e quindi nessuna prova di violazione". La concessione fatta dallo stilista newyorchese, è che, certo, "il doodle è stato originariamente ispirato alle t-shirt dei concerti dei Nirvana degli Anni 90, l'era del grunge". I suoi avvocati stanno spingendo affinché la giuria si pronunci quanto prima, e potrebbero anche ottenere un verdetto favorevole. Ma in fondo, varrà la pena, per un designer della sua caratura, utilizzare un simbolo pressoché sconosciuto alle nuove generazioni, che non ne conoscono la genealogia e quindi non vi riconoscono un simbolo di appartenenza così definita, come era negli Anni 90, per vendere qualche t-shirt in più? Questo però, non sarà una giuria a stabilirlo, ma la Generazione Z.

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Ben Gabbe//Getty Images
Marc Jacobs con la t-shirt ispirata ai Nirvana, durante la festa per il lancio della sua collezione Grunge Redux, nel dicembre 2018